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Leggende di ghiacciai: Benozzo rilegge i miti

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Si tratta di cinque leggende dedicate ai ghiacciai scomparsi dell’Appennino di Modena


Leggende di ghiacciai: Benozzo rilegge i miti
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È uscito il 5 dicembre un volumetto dal titolo Leggende di ghiacciai (Edizioni La Vela, 2022, 52 pagine, 10 euro) scritto da Francesco Benozzo, il poeta-filologo-cantautore dell’Appennino Modenese ininterrottamente candidato dal 2015 al premio Nobel per la letteratura, con candidature rese pubbliche dal Pen International.
 


Di Benozzo conoscevamo soprattutto la produzione in versi, i poemi epici-sciamanici in virtù dei quali il critico Lope Estrada lo ha definito “l’Omero della post-modernità”, e grazie ai quali ha vinto il premio Poeti dalla Frontiera e conoscevamo la vasta produzione scientifico-saggistica (circa 800 pubblicazioni). Questa incursione narrativa dell'autore stupisce per grazia espositiva e potenza della parola. Si tratta di cinque leggende dedicate ai ghiacciai scomparsi dell’Appennino di Modena, nelle quali – come lo stesso Benozzo dichiara nella premessa – riecheggiano le sue letture dei miti dei Tungusi, dei racconti orali degli Jakuti e delle leggende dei Korjaki, oltre ai Racconti perduti di Toklien, in particolare La musica degli Ainur.

I personaggi di questo libro sono i paesaggi stessi: i ghiacciai, naturalmente, ma anche le pietre, gli alberi, il vento. Qualcosa di simile lo si era visto nei poemi di Benozzo, fortemente incentrati sugli elementi naturali, e in cui tuttavia comparivano anche gli uomini, se non altro il poeta che usava la prima persona. Qui sembra che l’autore faccia tesoro anche dei propri studi etnofilologici, nei quali ha esplorato non a caso l’animismo degli elementi, indagando le concezioni totemiche ancora racchiuse nei nomi dialettali e antichi che si riferiscono alle pietre, alle piante, alle acque e, appunto, al ghiaccio. Le leggende stesse non sono narrate da un cantore o da un bardo, ma da una pietraia.
Chi ha portato queste leggende non bagnate dalle lacrime degli uomini, profonde ed eminenti, piene di molte cose? È stata Dïànvele, la lunga pietraia a tre teste, la grigia frana dai licheni simili a isole lontane, dalla voce simile al tuono.

È stata lei a far conoscere queste imprese, a portarle fin qui dalle altezze delle montagne e delle epoche. Lassù, dove passano i venti pieni di sole, la grande pietraia, al cui confronto non reggono né le alture di larice e betulla né le slavine delle catene orientali, là ha rilasciato i suoi detriti, con la lunga memoria dei paesaggi (p. 13).

Lo stile orale e fiabesco è accattivante, e avvolge il lettore in una dimensione di storytelling arcaico e in qualche modo familiare a tutti.
Al di là del mare c’è un continente, ma al di là del continente c’è ancora il mare, e al di là di quel mare ci sono le montagne da cui i ghiacciai migrarono fino in Appennino. Il cielo, laggiù, è sempre grigio di neve, e si muove lento sopra distese e distese di colore azzurro e bianco.
È da quel luogo che giunsero i chicchi di grandine sui grandi boschi del Fiòidhun. A quel tempo non viveva ancora Bàïkale, la piccola morena dei licheni verdi e arancioni. A quel tempo le sue forme non erano forme, le sue pietre non erano pietre, ed essa non arginava la stretta valle dove crescono i faggi nani.
A quel tempo il Fiòidhun era vasto fino ai due mari. Un lupo non avrebbe potuto percorrerlo tutto; un’aquila non avrebbe potuto osservarlo tutto. Soltanto la leggenda ha gambe e vista sufficienti ad abbracciarlo; nella leggenda esiste un’altra vita, una vita che lo sguardo non può raggiungere.
Ascoltate la leggenda portata da Dïànvele. Ascoltate (p. 27).

Il libro ha dietro di sé vaste letture di glaciologia, come ricorda lo stesso Benozzo, ed è in fondo una storia geologica dell’Appennino in forma di fiaba. L’unica volta in cui compare un accenno agli esseri umani è nella conclusione del libro, quando le storie raccontate dalla pietraia si trasformano in un monito verso la consapevolezza poetica:
Dïànvele ha rivolto a valle i suoi tre volti. Il primo volto è il passato, il secondo è il presente, il terzo è il futuro, e tutti e tre nei movimenti della grigia frana diventano un solo volto.
Per molto tempo gli uomini non sono saliti verso la pietraia per guardarla, ascoltarla e percorrerla. Alcuni ci sono passati vicino senza accorgersi delle leggende.
Ma ora che la parola di pietra risuona, si apra alla conoscenza l’animo di chi è pronto ad ascoltare e ricordare (p. 49).

Come riportato nella quarta di copertina, le Leggende di ghiacciai escono a duecento anni dalla prima fiaba scritta da Hans Christian Andersen (1822) e a cento anni dai primi abbozzi manoscritti dello Hobbit di Tolkien (1922), e si tratta di fiabe che fanno parte di un “corpus” narrativo mitologico più ampio, a cui l’autore lavora da tempo, intitolato Leggende di Orogenesi, che narra la formazione delle montagne e dei continenti del mondo.

Davide Meldolesi

Redazione Pressa
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