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Rubrica a cura di Alessandra Dal Borgo - Consultinvest sim
Anche se periodicamente diventa un tema molto presente nel dibattito politico o sulle fonti di informazione, il risparmio previdenziale è un argomento su cui i lavoratori sono spesso poco informati e che viene affrontato a uno stadio avanzato della carriera lavorativa. Cerchiamo quindi di fare chiarezza sull’argomento, pur con le necessarie semplificazioni e senza la pretesa di essere esaustivi, perché le variabili di ogni posizione previdenziale sono moltissime. In Italia il sistema fino agli anni ’90 era quasi esclusivamente basato sul cosiddetto primo pilastro, ovvero la previdenza pubblica obbligatoria, ed era di tipo retributivo, ovvero le prestazioni erano basate sulla retribuzione percepita. Con la riforma Dini, per i contributi pagati dal 1996 in poi, si è passati al sistema contributivo, ovvero a un sistema che eroga le prestazioni in base all’ammontare versato da ogni lavoratore nel corso della vita lavorativa.
La scelta è stata obbligata, in quanto il sistema precedente era basato sul fatto che i lavoratori che pagavano i contributi erano superiori ai pensionati. Col progressivo calo di questo rapporto e per l’esistenza di prestazioni pensionistiche molto favorevoli per alcune categorie (pensioni molto superiori ai contributi versati), la spesa aveva assunto una traiettoria insostenibile per le finanze pubbliche. Ricordiamo che il sistema pubblico italiano, come in molti altri paesi, è un sistema a ripartizione, cioè i contributi versati da ogni lavoratore non vengono accantonati e capitalizzati per la sua pensione, ma servono per pagare le pensioni correnti degli aventi diritto. Un altro fattore che ha contribuito in maniera determinante a modificare gli equilibri è la demografia. Da un lato l’aspettativa di vita media è in costante aumento, essendo passata da 74 anni per gli uomini nel 1992 a 81 nel 2023 e da 80.
5 a 85 per le donne, secondo l’ISTAT. Dall’altro il numero di nascite è passato da 576.000 nel 2008 a 393.000 nel 2022, a popolazione quasi costante, con il tasso di fecondità che è sceso da 1.44 nel 2008 a 1.24 nel 2022 (ISTAT). Queste tendenze sono lo stesse in tutti i principali paesi sviluppati, ma in Italia sono molto più pronunciate perché siamo rispettivamente al massimo per la aspettativa di vita e al minimo per la natalità nella Unione Europea. E’ chiaro che se le persone vivono più a lungo e ci sono meno lavoratori che pagano i contributi, il sistema non è in equilibrio, con la conseguenza che periodicamente viene richiesto ai lavoratori di andare in pensione più tardi e con una prestazione pensionistica inferiore. In situazioni di crisi sui mercati, come quelle che hanno portato alla nascita del governo Monti, il governo ha quindi dovuto approvare misure ancora più restrittive per contenere la spesa pensionistica (Legge Fornero) che rendono oggi il sistema pensionistico italiano uno dei più restrittivi in Europa.
Premesso che ogni situazione contributiva ha delle peculiarità che non consentono di generalizzare, oggi sappiamo che un lavoratore cinquantenne con una carriera lavorativa continuativa, riceverà una pensione intorno al 60% dell’ultima retribuzione, mentre per un lavoratore autonomo la percentuale scenderà sotto al 50%. Per i giovani le previsioni hanno notevoli margini di incertezza, visto il lungo orizzonte temporale, ma, pur in presenza di una carriera lavorativa continuativa, si stima che avranno percentuali ancora inferiori e dovranno andare in pensione in età più avanzata.
Per questo motivo da molti anni si è cercato di favorire anche in Italia il cosiddetto secondo pilastro, cioè la previdenza di categoria, con la nascita e lo sviluppo dei fondi pensione. Ogni lavoratore oggi può scegliere se lasciare il TFR in azienda (o conferirlo in un comparto “garantito” rispetto al TFR), come in passato, e beneficiare in una rivalutazione annua di 1.5% + il 75% del tasso di inflazione. In alternativa può scegliere di aderire a un fondo pensione, a cui vengono conferiti gli accantonamenti periodici del TFR, oltre a quote supplementari da parte del datore di lavoro (a seconda del contratto collettivo di lavoro) e, volendo, del lavoratore. I fondi pensione sono del tutto simili a fondi di investimento, nel senso che ogni lavoratore può scegliere il comparto con il profilo di investimento che preferisce e accumula un capitale che servirà a pagare la sua pensione quando avrà maturato i requisiti (sistema a capitalizzazione). In questo caso il sistema è per definizione in equilibrio, nel senso che ogni lavoratore ha una propria posizione e un capitale “dedicato” alla sua posizione pensionistica. Dal punto di vista del lavoratore non è una vera e propria posizione previdenziale supplementare, in quanto è solo un utilizzo diverso del TFR (pur con vari incentivi fiscali e di aumento della contribuzione). La convenienza si ha (al lordo degli incentivi) quando il rendimento maturato dal fondo pensione è superiore a quello del TFR, cosa che si dovrebbe verificare, specialmente su lunghi orizzonti temporali e con un profilo di investimento azionario. Un altro fattore distintivo è che il TFR viene incassato dal lavoratore ogni volta che cambia datore di lavoro, mentre il fondo pensione è riscattabile quando si maturano i requisiti per la pensione e deve essere erogato per almeno il 50% in forma di rendita (salvo casi speciali come necessità per spese mediche o acquisto della prima casa).
In aggiunta a tutto questo, i lavoratori possono costruirsi autonomamente il cosiddetto terzo pilastro, ovvero la previdenza privata e volontaria, per integrare la prestazione pensionistica tramite l’adesione a un fondo pensione aperto o a un piano pensionistico individuale (PIP, contratto assicurativo). Anche in questo caso ci sono degli incentivi fiscali (entro certe soglie). Secondo il più recente rapporto di MEFOP, l’associazione di categoria dei fondi pensione, a fine 2023 risultano aperte circa 10.5 milioni di posizioni nelle varie forme pensionistiche complementari, su un totale di quasi 24 milioni di occupati. Ipotizzando che siano tutte posizioni distinte, significa che solo il 40% circa dei lavoratori ha una qualche forma di previdenza complementare. Limitandosi ai fondi pensione negoziali, ovvero quelli dei vari settori industriali (Cometa-metalmeccanici, Fonchim-chimici ecc.), il dato sorprendente è che gli aderenti sono poco meno di 4 milioni su circa 12 potenziali, per un tasso di adesione pari a 1/3 (anche se in lenta e costante crescita). C’è quindi una fetta largamente maggioritaria di lavoratori che non ha aderito alle forme di previdenza complementare previste dai contratti collettivi di lavoro, e quindi un mercato potenziale enorme di lavoratori che probabilmente hanno necessità di una consulenza pensionistica qualificata e di adeguate soluzioni. Le soluzioni a disposizione dei lavoratori per quella che è chiaramente una necessità sono molto numerose, ognuna delle quali, oltre all’aspetto finanziario, ha caratteristiche peculiari che richiedono una adeguata formazione da parte del consulente finanziario. E’ però una opportunità importante per dimostrare il valore della consulenza finanziaria su un bisogno primario di ogni lavoratore che viene spesso sottovalutato o posticipato fino a quando diventa difficile trovare soluzioni adeguate.
Gabriele Montalbetti