Così in Italia si moltiplicano commemorazioni e si frammenta identità

Intanto il 4 novembre non viene riportato al rango di 'festa nazionale', con ogni evidenza perché troppo 'politicamente scorretta'


Tre giorni prima, 9 novembre, la Meloni ha invece commemorato in un apposito video la “Giornata della libertà in ricordo dell'abbattimento del muro di Berlino”, che non è solennità nazionale bensì una delle bel 27 “Giornate celebrative nazionali e internazionali”, insieme alla “Giornata nazionale degli stati vegetativi” (9 febbraio), alla “Giornata nazionale del sollievo” (ultima domenica di maggio) o alla “Giornata della memoria per le vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice” che cade il 9 maggio, lo stesso giorno della “Giornata dell’Europa”. La distinzione di rango protocollare tra “feste”, “solennità” o “giornate celebrative” riflette del resto solo parzialmente la loro risonanza pubblica. Il “giorno della memoria” del 27 gennaio, che ricorda la liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche, a giudicare dall’enorme battage mediatico che ogni anno lo circonda sembrerebbe una tra le più celebrate festività nazionali, mentre rientra tra le decine di ricorrenze celebrative, che non prevedono neppure l’imbandieramento degli edifici pubblici.
Un paio di settimane dopo, il 10 febbraio, si festeggia il “Giorno del ricordo degli istriani, fiumani e dalmati”, che è “solennità civile”, ma che ha un rilievo nettamente minore, probabilmente perché a molti le vittime dei comunisti titini appaiono di serie inferiore a quelle del “male assoluto” nazista.
In Italia abbiamo undici giorni festivi che corrispondono a tre ricorrenze civili e otto religiose; nel 1977, il governo della “non sfiducia”, guidato da Giulio Andreotti, abolì cinque festività, ufficialmente in nome dell’austerity. Insieme a quelle dell’Epifania (che venne ripristinata nel 1986), San Giuseppe (19 marzo), Ascensione (26 maggio), 29 giugno (SS. Pietro e Paolo), a farne le spese fu anche quella del 4 novembre, che pure ricordava il completamento dell’Unità nazionale e la vittoria nella prima guerra mondiale, l’unico successo militare nei 160 anni di storia italiana.
Se la cancellazione di alcune festività religiose agli effetti civili si poteva comprendere alla luce del processo di laicizzazione della società italiana, la soppressione del 4 novembre fu una scelta del tutto infelice, frutto del particolare contesto politico. Nel 1977 i comunisti, che non facevano parte del governo ma lo appoggiavano dall’esterno, chiesero e ottennero la testa di una festa dal sapore “patriottardo” e che, soprattutto, faceva ombra al “loro” 25 aprile. Neppure le retoriche dichiarazioni e le posture nazionaliste di due presidenti della Repubblica come Carlo Azelio Ciampi e Giorgio Napolitano sono valse a riportare il 4 novembre al rango di “festa nazionale”, con ogni evidenza perché troppo “politicamente scorretta”.
In compenso, sotto l’egida di Napolitano, e in occasione dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, nel 2012 è stata con legge istituita la nuova “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera”, con uno status intermedio tra la festa nazionale e la solennità civile. La sovrapposizione, per contenuti e significato, di questa giornata commemorativa ad altre già esistenti (Festa della Repubblica, Festa dell’Unità nazionale, Giornata nazionale della Bandiera), appare del tutto evidente, così come la sua sostanziale inutilità.
Questa nuova festa è però indicativa della tendenza in atto ormai da un trentennio di moltiplicare con varie denominazioni le occasioni di memoria pubblica, frequentemente sulla spinta delle convenienze politiche del momento. Nel 2012, una festa dell’”unità nazionale” era funzionale a rintuzzare politicamente le spinte separatiste allora prevalenti nella Lega.
Per quanto possa apparire paradossale, la crescita numerica di questi eventi celebrativi è andata in parallelo con l’ulteriore frammentazione dell’identità storica e civile del paese. Ma un popolo che non ha il senso di una storia e di un’appartenenza comuni è senza identità e quindi senza futuro.
Giovanni Fantozzi
Foto Italpress
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