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Revoca sanzioni è l'unica strada. Ma la Meloni è la prima a dire 'no'

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L’ex missina Meloni spera che l’oltranzismo atlantista serva a “sbianchettare” le sue giovanili simpatie mussoliniane e a spianargli la strada alla premiership


Revoca sanzioni è l'unica strada. Ma la Meloni è la prima a dire 'no'
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Un tratto somatico accomuna i partiti di centro, di destra e di sinistra, che si stanno ora azzuffando nel pollaio della politica italiana per la conquista di un posto in parlamento: una grandissima faccia di tolla.

Un mese fa avevano cominciato la campagna elettorale trastullandosi e concionando a sinistra degli irrinunciabili diritti LGBTQ, di “matrimonio paritario”, di jus soli, di “agenda Draghi”, e a destra di taglio radicale delle tasse, di blocco navale, di riforma presidenzialista, e compagnia cantante. Tutto questo mentre il paese era già avviato a passo veloce sulla china di una disastrosa congiuntura economica indotta dagli insostenibili prezzi dell’energia. Nel momento in cui a sinistra Letta presentava il libro dei sogni del programma del PD zeppo di slogan sulla “transizione ecologica” e sullo “sviluppo, sostenibile” e la Meloni apriva quello di FdI denso di “patriottismo”, di “orgoglio italiano” e del “nuovo Rinascimento”, interi settori produttivi erano già con l’acqua alla gola per i costi di produzione fuori controllo.

Tutte le filiere industriali e artigianali ad alto consumo energetico da tempo lamentavano inascoltate che a questi livelli di prezzo sarebbero state costrette a chiudere e di conseguenza a licenziare centinaia di migliaia di lavoratori. Senza contare le gravi difficoltà economiche per le famiglie a basso reddito spremute da un’inflazione ormai vicina alle due cifre, come non si vedeva da quasi mezzo secolo. Quella che da sei mesi a questa parte si sta sempre più minacciosamente materializzando non è una delle tante battute d’arresto della nostra economia, ma una crisi epocale, capace di minare alle fondamenta le prospettive di sviluppo dei paesi occidentali, in primis quelli strutturalmente più deboli come l’Italia.

Se fino all’ultimo tutti i partiti che si contendono la guida del nostro sfortunato paese hanno cercato di glissare su questa crisi è perché ne portano sulle spalle gran parte della responsabilità.

Sono loro e non il destino cinico e baro ad aver acceso la miccia della conflagrazione che ci sta travolgendo, nel momento in cui hanno votato in parlamento quasi all’unanimità le sanzioni contro la Russia e l’invio di armi all’Ucraina. I nostri politici, con la buona compagnia degli altri leader dell’UE, si sono voluti accodare irresponsabilmente e acriticamente agli USA e alla NATO a totale trazione americana, nel presupposto totalmente sbagliato che l’affaire russo si sarebbe risolto in pochi giorni e che un Putin sconfitto sarebbe venuto a strisciare al cospetto di Biden.

Con la sua solita sicumera, il 5 marzo 2022 Enrico Letta proclamava che “le sanzioni sono le più dure mai comminate e in qualche giorno porteranno al collasso l’economia russa, che finirà in ginocchio. Gli effetti stanno già arrivando”. Gli effetti sono arrivati eccome: nonostante le decine di miliardi di dollari in armi e aiuti spediti al regime di Kiev dai suoi curatori occidentali, la Russia sta vincendo sul campo di battaglia e ha raddoppiato gli utili provenienti dalla vendita di materie prime. L’Europa è avviata alla “fine dell’era dell’abbondanza” ha seraficamente ammesso il presidente francese Macron, come se questa sciagura fosse stata causata da un meteorite piovuto sul continente e non dalle scelte irresponsabili dall’establishment UE, di cui prima o poi anche lui dovrà rendere conto di fronte ai suoi cittadini.

I politici italiani, ben spalleggiati da un indecente circo mediatico, si sentono ancora lontani dal temere il redde rationem per il disastro che hanno provocato, e con la loro imperturbabile faccia di tolla, come tante sensali al mercato, cercano di rabbonire un elettorato sempre più confuso. In tutta fretta, dal loro cappello a cilindro hanno tirato fuori qualche proposta elettorale per rimediare ai prezzi abnormi delle materie energetiche: prima hanno provato con i pannicelli caldi come gli sconti in bolletta, lo sviluppo delle energie rinnovabili o il taglio dei profitti delle compagnie energetiche. Poi, con la stessa superficialità con cui fino a poco erano certi di distruggere economicamente la Russia e con la suprema benedizione pontificale del presidente del consiglio Mario Draghi, si sono decisi a sganciare la bomba termonucleare del price cap sul gas, l’arma letale che sarebbe capace di tagliare gli extraprofitti intascati dalla Russia grazie alle sanzioni.

Al di là dei proclami di facciata, sarà difficile che il G7 o l’UE raggiunga il consenso necessario per fissare un tetto del prezzo del gas per il semplice fatto che tra i maggiori speculatori sui prezzi delle materie energetiche in questo momento ci sono un certo numero di paesi occidentali che pure hanno imposto sanzioni alla Russia, a cominciare dagli Stati Uniti, la cui industria moribonda del GNL è stata rivitalizzata grazie alle straordinarie esportazioni verso l’Europa; per non parlare dell’Olanda, che della speculazione ha sempre fatto una delle sue ragioni esistenziali, e che sta rastrellando miliardi di euro sul mercato del gas di Amsterdam, o della Norvegia che nel 2022 ha quadruplicato le proprie esportazioni verso l’Europa. L’UE è un pugile ormai talmente suonato che riesce a fare affari con noi anche la Cina che ci rivende per 100 milioni di dollari a carico il GNL comprato a prezzi discount dalla Russia.

Ma pure ammesso che l’idea velleitaria di fissare un prezzo massimo d’acquisto, partorita da chi vuole fare la faccia feroce con le pezze al culo, alla fine venga formalizzata in qualche sede internazionale, appare già morta sul nascere dalla decisione della Russia di chiudere sic e simpliciter i rubinetti a tutti i paesi che adotteranno il price cap. Qualcuno evidentemente pensava che Putin stesse zitto zitto a farsi docilmente distruggere e che non ci ripagasse con la nostra stessa moneta. Com’era prevedibile, è bastato questo annuncio per fare schizzare ulteriormente alle stelle i prezzi dell’energia e a provocare un immediato crollo delle borse. In questa situazione il ministro dell’economia Massimo Franco ha ammesso che la bolletta energetica italiana passerà da 43 a 100 miliardi di euro, l’equivalente tre punti di PIL. Questo è il costo per ora della guerra che abbiamo scatenato contro la Russia e che abbiamo rovinosamente perso. Per un paese che ha un debito pubblico stratosferico e che non si è ancora ripreso dalla recessione causata dal Covid le conseguenze future sono facilmente immaginabili.

Non c’è dunque rimedio per questa povera Italia letteralmente ridotta alla canna del gas? Il sentiero per evitare di cadere definitivamente nel baratro a questo punto è molto stretto e presupporebbe l’esistenza di una leadership lucida e coraggiosa, a fatti e non a chiacchiere capace di riprendere in mano il destino del paese, schiacciato in questo momento sugli interessi geopolitici, economici e militari di altre potenze. Avere come stella polare i vitali interessi della nazione nel 2022 significa una cosa sola: revocare al più presto le sanzioni imposte alla Russia, interrompere ogni fornitura militare all’Ucraina e adoperarsi politicamente e diplomaticamente in sede UE e NATO per porre fine rapidamente a una guerra che non sarebbe mai dovuta iniziare.

Purtroppo, una simile classe dirigente non appare alle viste e nessuno dei partiti che si contendono il potere osa neppure parlare della revoca delle sanzioni. Si odono anzi manipoli di irriducibili pasdaran della NATO invocare nuove ritorsioni contro Putin. L’unico politico italiano di primo piano che, dopo aver votato con il suo partito tutto il pacchetto antirusso, ha mostrato qualche timido segno di resipiscenza e di ragionevolezza è stato in questi giorni Matteo Salvini, subito zittito da Giorgia Meloni, secondo la quale la revoca delle sanzioni farebbe dell’Italia “il ventre molle d’Europa”. Alla signora andrebbe invece ricordato che è stata soprattutto la politica servile e acquiescente verso gli USA e la NATO di questi ultimi trent’anni a trasformare l’Italia, un tempo protagonista almeno sullo scacchiere mediterraneo, in un paese privo di credibilità e sempre più marginale a livello internazionale.

Di essere una “patriota” la segretaria di FdI, che sembra già parlare come premier, lo sbandiera quotidianamente, ma i suoi atti e le sue parole fanno grandemente dubitare che se sarà davvero eletta avrà la capacità e la volontà di agire nell’interesse esclusivo del paese. Sembrano definitivamente tramontati i tempi in cui in Italia c’erano uomini di stato in grado di comprendere la distinzione tra “alleati” e “servi”, e che nei momenti cruciali avevano ben presente da che parte stesse la loro patria. Due esempi: il presidente dell’ENI Enrico Mattei, il quale mise le basi dello straordinario sviluppo industriale dell’Italia degli anni ’60, stringendo rapporti economici e politici con i paesi petroliferi del Medio Oriente e scontrandosi perciò con il monopolio nel settore energetico fino ad allora detenuto delle “sette sorelle” americane e inglesi; e il presidente del consiglio Bettino Craxi, che nel 1985 diede ordine ai GIS dei carabinieri di circondare la Delta Force americana sbarcata nella base aerea di Sigonella per catturare, in violazione della sovranità territoriale italiana, i palestinesi autori del sequestro dell’Achille Lauro.

Se vuole trovare esempi più vicini a lei anche politicamente, la Meloni potrebbe guardare al premier ungherese Viktor Orban, il cui paese è membro dell’UE e della Nato. Da tempo, Orban ripete che nel seguire gli Stati Uniti in questa guerra “l’occidente sta tentando il suicido”, e senza alcuna esitazione è volato a Mosca per trattare direttamente con Putin forniture extra di gas e la costruzione di due nuove centrali nucleari. E’ trascorso solo un anno, ma sembra già passato remoto, dall’incontro a Roma tra la Meloni e Orban in cui insieme ribadivano “la loro stretta collaborazione nel perseguire l’obiettivo comune del rafforzamento della destra europea”. Con il favore dei sondaggi in poppa e sentendo per la prima volta il profumo di potere, la Meloni ha rinnegato in tutta fretta le passate frequentazioni con Orban e gli altri leader della destra “populista” europea, dimostrando lo stesso desiderio di compiacere i padroni del vapore che hanno le debuttanti parvenu che vogliono essere ammesse nei salotti buoni.

Come era già accaduto per l’ex comunista D’Alema che nel 1999 da presidente del consiglio diede semaforo verde all’aggressione NATO alla Serbia pur di farsi perdonare i suoi imbarazzanti trascorsi, così l’ex missina Meloni spera che l’oltranzismo atlantista serva a “sbianchettare” le sue giovanili simpatie mussoliniane e a spianargli la strada alla premiership. L’endorsement dell’ultraliberal Hillary Clinton sembra dargli ragione, ma se fossi nella Meloni non mi farei troppe illusioni su di un roseo futuro di governo. Sullo sfondo si sente già il rumoroso clangore di sciabole della speculazione finanziaria pronta ad aggredire un paese economicamente alla deriva, e se questa non bastasse saranno presto gli italiani a tentare di scrollarsi di dosso il lungo e freddo inverno del proprio scontento.

Giovanni Fantozzi

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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