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A 29 anni dall’attentato di via D’Amelio il ricordo di quella strage si unisce alla consapevolezza delle tante parole tristemente rituali che ogni anno vengono spese per ricordare il martirio di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. E ogni anno paradossalmente si rafforza il desiderio di fare silenzio. Un silenzio che nasce dalla amara consapevolezza di una verità sulla strage falsamente cercata, ancora nascosta tra depistaggi, agende e ricostruzioni, e allo stesso tempo celebrata, spesso in un ipocrita esercizio di retorica. Con un dibattito fossilizzato sulla ricerca di una verità storica che comunque, a tre decenni dalle stragi, non restituirebbe giustizia, forse nemmeno alle vittime. Perché quella verità è e sarà eternamente importante per la sua famiglia, per i figli Fiammetta, Manfredi e Lucia, ma a distanza di 29 anni qualsiasi svolta nelle indagini non può cambiare la realtà di oggi o intaccare i tentacoli che attanagliano il futuro del Paese.
Una verità che in fondo - al di là dei nomi - era già nota prima di quel 19 luglio '92 e che Borsellino stesso aveva spiegato, descritto, denunciato in più occasioni, in particolare nelle ultime interviste in quei 57 giorni di via crucis che separarono la morte di Falcone dalla sua.
Tutto questo mentre intorno, oggi, la sfiducia nelle istruzioni, ancora una volta denunciata dallo stesso Borsellino, come testimonia un audio inedito di questi giorni, è aumentata rendendo il confine tra Stato e cancro mafioso una linea sfumata, sullo sfondo di una sempre più vasta zona grigia, dominata dagli interessi economici, talmente pervasiva da esigere raramente l'uso della violenza. E, ancora, il caso Palamara, con le incredibili rivelazioni collegate, negli ultimi anni ci ha mostrato tutti i limiti di una magistratura nella quale Paolo Borsellino e Giovanni Falcone hanno creduto, fino al punto di dare tutto ciò che avevano.
Così quel desiderio di fare silenzio, di togliere parole alle celebrazioni invece di aggiungerne, di evitare almeno di partecipare al vuoto circo delle sterili omelie, aumenta.
Ma forse questo silenzio potrebbe essere confuso con una resa, con una disillusione talmente profonda da sfociare nel cinismo. E allora, fosse solo per evitare questo scenario, è giusto e doveroso sfidare questa voglia di inerzia e correre il rischio della ripetizione e del già detto. Sperando che le parole di sempre, possano essere riempite di un significato rinnovato, nella consapevolezza che la necessità di porre un argine deciso alla criminalità organizzata è cresciuta. E' cresciuta ovunque e in particolare nel mondo dell'autotrasporto che rappresento da oltre 15 anni, oggi attraverso il raggruppamento di piccoli imprenditori Ruote Libere. Un settore nel quale le infiltrazioni trovano sempre più terreno fertile interessate come sono ai vantaggi legati alle sue caratteristiche specifiche: dall'essere un’ottima lavanderia per ripulire i proventi dei traffici illeciti al rappresentare un veicolo per gestire i traffici stessi (in particolare armi e di droga), dal fungere da mezzo per entrare nel circuito degli appalti e per godere di finanziamenti pubblici alla possibilità di un controllo capillare del territorio. Un settore peraltro oggi sempre più vulnerabile e per questo più facilmente aggredibile.
Tutto questo nella certezza che la zona grigia, la sfiducia nello Stato, gli ormai inutili riti dell’antimafia da salotto, non impongano né parole diverse né silenzi arrendevoli, ma che occorre riprendere una battaglia di legalità rendendola patrimonio comune di un Paese che ancora non ha fatto i conti con le pagine più vergognose della propria Storia e che, per questo, non è in grado di costruire quel futuro di libertà lontano dalle mafie, immaginato dai propri martiri.
Cinzia Franchini
Redazione Pressa
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