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'Messe e covid: pastorale a distanza non funziona. E' solo un alibi'

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Una relazione a distanza funziona perché permette di continuare a fare la propria vita senza doverla mettere in discussione


'Messe e covid: pastorale a distanza non funziona. E' solo un alibi'
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A parte la questione contingente della apertura o meno delle messe vorrei soffermarmi su due aspetti fondamentali della lettera dell'Arcivescovo ai sindaci.

Il primo è la critica a come si è affrontata l'emergenza generata dalla pandemia, soprattutto nella prospettiva della fase due, sia come criterio di giudizio sia come metodo usato.

All'origine del giudizio su come affrontare l'emergenza c'è una certa Concezione della persona:

'una visione antropologica limitata ad una dimensione: se nell’emergenza è evidente che occorra privilegiare a tutti i costi la salute e gli alimenti, nella “fase due” è necessario integrare – con tutte le precauzioni – anche le altre dimensioni, i beni relazionali e quelli spirituali”, visione che tende a ridurre anche le esigenze della persona: ' La scelta di continuare ad offrire quasi esclusivamente servizi per l’alimentazione e la salute è comprensibile e giustificata (con l’eccezione, lo metto tra parentesi, delle dipendenze: tabacco e lotterie); ma esistono, oltre ai beni materiali, che sono la base per la vita biologica, anche dei beni relazionali e dei beni spirituali, che contribuiscono insieme al “benessere” globale della persona: corpo, affetti, mente, anima.

.

Come definire  questa 'visione antropologica' ce lo suggerisce la dichiarazione del presidente del Consiglio a Milano sulla questione della non riapertura delle messe, una specie di 'excusatio non petita': 'Dispiace molto perché questo governo rispetta tutti i principi costituzionali. Dispiace di creare un comprensibile rammarico della Cei. Ci siamo anche sentiti con il presidente Bassetti, non c'è un atteggiamento materialista da parte del governo, nessuna mancanza di sensibilità. C'è sì, una certa rigidità del Cts anche sulla base della letteratura scientifica che loro hanno a disposizione sui contagi'.

Il riferimento al materialismo e la volontà di scaricare la responsabilità sul comitato scientifico mi suggerisce che la visione antropologica a cui ci si riferisce è un combinato tra l'idea che sia la scienza l'unica capace di avere una visione oggettiva dell'uomo e il materialismo che ritiene che la realtà fisica sia tutto e solo ciò che esiste.

Se volessimo definire con un termine questa visione   potremmo parlare di materialismo scientista,  che è un tipo di atteggiamento molto presente nell’affronto delle questioni che riguardano l'etica della vita dell'occidente, parlo delle scelte che riguardano l'eutanasia, la marginalizzazione degli anziani, dei disabili, ecc.

Ma la critica sul modo di affrontare le emergenze si riferisce anche al metodo usato: 'la “fase due” – che prevedibilmente durerà fino alla pratica generalizzata del vaccino – non può essere portata avanti con disposizioni decise unicamente al centro, ma deve avvalersi di voci della società civile, della quale voi siete tra i migliori ascoltatori e interpreti. La “fase due” non può essere impostata come se si trattasse di allentare dei pezzi di corda, di concedere delle piccole aperture a singhiozzo, di allargare le maglie a malincuore”.

Si tratta di un metodo improntato al centralismo, allo statalismo che concepisce il dovere alla solidarietà anche nei momenti più tragici come una 'concessione': “ Il Presidente del Consiglio, che ha accennato alla dimensione spirituale e celebrativa come se fosse una “concessione”, e solo per quindici persone e per i funerali, meglio se all’aperto…”. Un metodo centralistico che respinge ogni idea di sussidiarietà e sente con fastidio la presenza dei corpi intermedi: “A voi risulta chiara la valenza “socialmente utile” della Chiesa, perché amministrate direttamente il territorio e siete in continuo contatto con le parrocchie e i sacerdoti, gli enti e le associazioni, i volontari e le diverse iniziative. Ma sembra che a livello centrale invece questa chiarezza non ci sia e, non da oggi, abbiamo l’impressione che “la Chiesa” appaia qualche volta come parte del problema piuttosto che come partner della soluzione.”

Il secondo aspetto è l'insegnamento per la chiesa in questo tempo di pandemia.

Le parole del vescovo: 'ora occorre davvero il coraggio di affrontare una dieta evangelica, arrivando anche a scelte faticose riguardanti la semplificazione burocratica e la dismissione di strutture. In alcuni casi, sarà lo stesso impoverimento delle parrocchie, delle scuole cattoliche, di alcuni enti ecclesiastici e della diocesi stessa a dettarci questa agenda. Una comunità cristiana “sanificata” potrà contribuire meglio al bene spirituale delle persone, che non è meno importante dei beni materiali e relazionali, perché concerne il senso stesso della vita.”, fanno venire in mente le parole pronunciate nel 1969 da un giovane professor Ratzinger: ' Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare molti degli edifici che aveva costruito nella prosperità. Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali.[…] Ma nonostante tutti questi cambiamenti che si possono presumere, la Chiesa troverà di nuovo e con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio Uno e Trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nell’assistenza dello Spirito, che durerà fino alla fine [...]Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede. Certo essa non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte”.

Perché la Chiesa risponda alle domande di senso, che mi sembra essere l'obiettivo comune delle parole del Vescovo nella lettera ai sindaci e del testo di Ratzinger, è il mettersi in relazione: 'Tutto fa pensare che dovremo presto affannarci di meno nell’organizzazione e occuparci di più della relazione, legarci di meno a spazi e strutture e concentrarci di più sulla vicinanza alle persone, nelle loro fragilità e nella loro vita quotidiana.”. Diceva però Emmanuel Mounier:

'Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne', il mettersi in relazione cioè è efficace se non si limita alla ripetizione di un annuncio ma se è la comunicazione di come la morte e risurrezione di Cristo ha cambiato la mia carne, ha risposto in modo soddisfacente alle domande fondamentali della vita.

Questa relazione ha bisogno di una prossimità che non può essere assicurata dall'attuale pastorale 'a distanza'. Una relazione a distanza funziona perché permette di continuare a fare la propria vita senza doverla mettere in discussione come sarebbe necessario in una convivenza, perciò l'illusione che con la tecnologia la Chiesa sia arrivata a tutti e che tutti possono così meglio partecipare alla vita della comunità Cristiana, è solo l'ennesimo alibi per chi vuole evitare di mettersi in gioco e rivedere le proprie posizioni.

E’ la stessa cosa che accade in questi giorni per la didattica a distanza a scuola, che certo consente di arrivare a tutti (nessuno è più assente perché ti vengo dentro casa…) ma che somma alla distanza che già si registra in classe tra la proposta del docente è l'interesse dello scolaro,  anche la distanza fisica che permette ulteriori vie di fuga ( durante le video lezioni si possono accusare problemi tecnici, telecamera che non funzionano, microfoni rotti, poca connessione,... e così giocare col telefonino, farsi la merenda, ascoltare una canzone…).

Ciò che voglio dire è che la distanza tra la proposta cristiana e la persona che le riceve è determinata dal fatto che ciò che è proposto non è una risposta alle domande fondamentali dell'uomo, e lo può diventare solo se questa la risposta la vedo in atto nella vita di un cristiano e ne posso partecipare attraverso una relazione 'in presenza'.

Certamente mettersi in gioco in una relazione a partire da come la morte e risurrezione di Cristo risponde alle mie domande fondamentali è impegnativo. Molto più facile è limitarsi a ripetere un annuncio teorico, Oppure, visto che questo annuncio suscita poco interesse, dedicarsi a iniziative sociali che possono procurare più consensi e soddisfazioni. Mi sembra che sia questo l'ultimo richiamo sulla identità della vita della Chiesa, che vale certamente per la società civile: ' Però deve essere chiaro che “la Chiesa non è una ONG” (papa Francesco, 14 marzo 2013): l’attività delle comunità cristiane, cioè, non si fonda semplicemente su motivi filantropici e umanitari; si fonda sulla fede nella parola di Dio, sulla forza della celebrazione eucaristica e dei sacramenti, sull’accoglienza e la valorizzazione dei doni dello Spirito Santo.”, ma un richiamo che vale soprattutto per chi, all'interno della comunità cristiana è proprio tentato di cercare consensi come “operatore sociale', ritenendo di potere tutto sommato facilmente rinunciare alla vita sacramentale nella sua forma ordinaria e autentica: ' In altre parole, quelli che sopra ho definito beni spirituali, per noi cristiani non sono un contorno eventuale e facoltativo al servizio, ma ne sono il cuore. L’esperienza dei beni spirituali motiva l’impegno per la cura dei beni relazionali; e dentro la relazione stessa con le persone emerge il servizio che si esprime nell’aiuto anche attraverso i beni materiali. Tutto è connesso.”.

Ridurre la prossimità e la relazione integrale alla persona che è permesso all'interno della vita della  comunità cristiana ad un servizio socialmente utile, trascurando la connessione con la fonte  sacramentale,  è come quando viene a mancare la benzina in una macchina: mettendo in folle per un po' si va avanti, ma è un muoversi senza futuro.

Luca Falciola


Redazione Pressa
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