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Controffensiva ucraina: un sanguinoso e clamoroso fallimento

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Al terribile costo di 40-50 mila tra morti e feriti, fin qui i guadagni territoriali sono stati pressoché nulli


Controffensiva ucraina: un sanguinoso e clamoroso fallimento
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Ampiamente annunciata dal Kiev e propagandata da tutti i media occidentali come la svolta della guerra in Ucraina, la controffensiva estiva di Kiev doveva essere poco più di una formalità sul piano militare, quasi una cavalcata trionfale attraverso le steppe meridionali del Donbass. Il capo dell’esercito Zaluzhny e i generali dello Stavka avevano pianificato una blitzkrieg di 72-96 che, dopo aver sbriciolato una dopo l’altra le difese della “linea Surovikin”, avrebbe portato alla riconquista di Berdiansk e Melitopol fino a lambire il mare di Azov, dopo di che la Crimea sarebbe caduta rapidamente come una succosa mela matura.

Alla vigilia, il capo dell’intelligence Kirill Budanov e il ministro degli esteri Kuleba avevano addirittura sentenziato che la guerra sarebbe finita “entro l’estate” e profetizzato il “disgregamento” della Russia; il presidente Zelensky sprizzava ottimismo al punto da pregustare un summer party sulle spiagge dorate di Fedosia.

Tanto era l’entusiasmo tra gli ucraini, sempre più persi nella loro autocostruita realtà virtuale, che il 24 marzo il Kyiv Indipendent propalava la topica che i russi avevano già “cominciato l’evacuazione della penisola di Crimea”. Che ci credessero davvero o che fossero parole di circostanza, anche gli americani si mostravano fiduciosi nel successo del loro alleato. Il generale Ben Hodges il 18 febbraio aveva affermato che gli ucraini “avevano una realistica chance di liberare la Crimea entro la fine dell’estate”.

Ciclicamente gli americani riescono a convincere o ad assoldare qualche sciagurato governante a condurre il proprio popolo al massacro. Quindi, nihil novum sub soli: esattamente quindici anni fa gli USA incoraggiarono l’allora presidente georgiano Mikheil Saakashvili ad attaccare l’Ossezia del sud, protetta dalla Russia, in cambio della promessa di un futuro ingresso del suo paese nella NATO e nell’UE.

La malriposta fiducia di Saakashvili nelle promesse americane si tradusse in una disastrosa sconfitta militare e nella conseguente estromissione dalla vita politica. L’ex presidente si trova attualmente in carcere in Georgia per malversazione e abuso d’ufficio dopo aver tentato maldestramente negli anni passati di rifarsi una carriera politica, guarda caso, proprio in Ucraina.

Partita il 5 giugno con grandi squilli di fanfara, alla prova dei fatti l’“operazione Azov” si è rivelata per gli ucraini un sanguinoso e clamoroso fallimento. Anziché penetrare nel burro delle difese russe, l’esercito di Kiev, giorno dopo giorno, ha continuato a schiantarsi in assalti frontali contro i campi minati, i fossati anticarro e il reticolo delle trincee russe nella regione di Zaporizhzhia. Si sta ripetendo il copione del sanguinoso “tritacarne” in stile prima guerra mondiale che si era già visto in azione a Mariupol e a Bakhmut.

Al terribile costo di 40-50 mila tra morti e feriti, fin qui i guadagni territoriali sono stati pressoché nulli, i soldati ucraini sono riusciti a ad avanzare per 8-10 chilometri e occupare circa 200 km quadrati di territorio (che equivalgono allo 0,38% della regione di Zaporizhzhia e di quella di Donetsk) e un pugno di microscopici villaggi ormai cancellati dalla faccia della terra. E, soprattutto, le formazioni ucraine non sono riuscite a sfondare neppure la prima delle tre linee fortificate di resistenza nemiche disposte in profondità per decine di chilometri. Recentemente sono state gettate in prima linea anche le unità di élite ucraine, come la 82esima brigata d’assalto, una di quelle che in origine erano tenute in riserva per sfruttare e consolidare il successo del primo sfondamento. Nel disperato sforzo di avanzare e conseguire qualche successo, ora vengono usate anch’esse come “carne da cannone” contro la “linea Surovikin”.

Nel ridotto tratto di fronte meridionale tra Pyathikatki, Orekhovo Rabotino e Verbovoje, dove si ammassate più di venti grandi formazioni delle forze armate ucraine, giacciono, accanto a tanti cadaveri insepolti che è impossibile evacuare allo scoperto sotto il costante fuoco di artiglieria, le carcasse di centinaia tra carri armati Leopard 2A4 e 2A6, veicoli da combattimento americani M2 Bradley e veicoli corazzati Stryker, quei potenti mezzi messi a disposizione dall’occidente collettivo che, in teoria, avrebbero dovuto imprimere la svolta al potenziale bellico di Kiev.

Ancora poche settimane e la controffensiva ucraina è destinata fatalmente a esaurirsi, sia perché il logoramento delle truppe e dei materiali che va avanti da oltre novanta giorni non è ancora a lungo sostenibile, sia soprattutto perché l’autunno è alle porte e con esso la famosa Rasputiza, ossia l’impraticabilità del terreno causata dalle piogge. E per raggiungere Melitopol mancano ancora 90 chilometri.

Non c’è dubbio che l’autunno e soprattutto l’inverno saranno lunghi e difficili in Ucraina. Con l’attuale situazione di stallo sul campo di battaglia si sta sempre più incrinando di fronte all’opinione pubblica la narrativa di una facile e prossima vittoria sui russi, mentre si prospetta a un paese sempre più stremato almeno un altro anno di guerra e nuovi terribili sacrifici di vite umane ed economici. Nel 2023 l’Ucraina ha raggiunto l’ottavo posto al mondo nella poco invidiabile classifica del misery index, tra Yemen e Cuba.

Di fronte al bilancio della controffensiva ormai fallita, Zelensky è corso ai ripari silurando il ministro della difesa Oleksii Reznikov, e cercando tardivamente di fare pulizia in un apparato pubblico afflitto dall’endemica piaga della corruzione. Sono stati licenziati in massa i capi regionali del reclutamento, più o meno tutti coinvolti in un sistema di mazzette che consentiva di evitare la coscrizione dietro il pagamento di alcune migliaia di dollari, e contestualmente è stata preannunciata una nuova e più rigorosa ondata di mobilitazione militare. Con i nuovi criteri di selezione si sta davvero raschiando il fondo del barile, poiché saranno costretti a indossare la divisa anche i malati di mente “in forma lieve”, i “tubercolotici guariti” e i “portatori asintomatici di HIV”. La guerra, insomma, con le armi e il denaro americano deve continuare “fino all’ultimo ucraino”, con un esercito che in futuro assomiglierà sempre più alla Volkssturm d’infausta e sfortunata memoria.

Lo scarico di responsabilità di Zelensky e del suo cerchio magico per i fallimenti militari ed economici si estende anche agli alleati occidentali, che non fornirebbero abbastanza equipaggiamento e armi avanzate per pareggiare i russi sul campo di battaglia. Se la vittoria non è stata fin qui raggiunta sarebbe solo per la carenza di wunderwaffen. Dopo gli Himars, i Patriot e i carri Leopard il miracoloso rovesciamento delle sorti del conflitto nel wishful thinking ucraino è ora affidato a qualche decina di caccia F16, per ottenere i quali l’ex comico sta girando con il cappello in mano in molte capitali europee. Se tutto andrà bene per Kiev questi vecchi aerei saranno operativi, forse, tra il 2024 e il 2025.

Gli americani hanno reagito alle non tanto velate critiche di Kiev facendo chiaramente capire che gli insuccessi devono essere ascritti non alla carenza di armamenti ma ai vertici politici e militari ucraini, incapaci di applicare sul campo di battaglia i fondamenti tattici e strategici impartiti da Washington. John Kirby, coordinatore del consiglio di sicurezza nazionale americano, ha sottolineato che gli USA “hanno dato all’Ucraina tutto ciò che ha chiesto per la controffensiva ma tutto non va come vorrebbe Kiev”. In realtà, come molti analisti hanno osservato, gli USA e la NATO negli ultimi decenni sono stati coinvolti in guerre asimmetriche come quella irachena o afghana, e si trovano ora anch’essi impreparati a sostenere un conflitto con un esercito moderno e a sfondare difese a più livelli protette dal fuoco aereo e d’artiglieria.

L’impasse militare di Kiev suona come un sinistro campanello di allarme per gli americani, che in un anno e mezzo hanno investito nella guerra in Ucraina la bellezza di 75 miliardi di dollari, una cifra monstre che devono in qualche modo giustificare di fronte a un’opinione pubblica sempre più perplessa, senza contare che Biden sta entrando nell’anno elettorale e rischia di presentarsi come un’anatra zoppa al confronto con Donald Trump, il quale non fa mistero che di voler chiudere al più presto le ostilità con la Russia.

Se erano scettici su una vittoria decisiva di Kiev, gli USA avevano armato e addestrato gli ucraini perché contavano su una loro significativa avanzata verso sud in modo da intavolare eventuali colloqui di pace con i russi da una posizione di maggiore forza. La controffensiva non solo ha rivelato la debolezza strutturale di Kiev, ma anche la capacità della Russia di tenere testa sul piano militare e produttivo a una coalizione di una quarantina di paesi. E ora cresce il timore che dopo aver parato il colpo a sud l’esercito di Mosca passi all’offensiva nel prossimo inverno, magari rivolgendosi verso Kharkov.

In questo quadro, trovare una dignitosa via d’uscita diplomatica dal conflitto per i paesi occidentali e per l’Ucraina si sta dunque terribilmente complicando. Nelle settimane scorse Stian Jenssen, stretto collaboratore del segretario generale NATO Lens Stoltenberg, è stato mandato avanti per sondare il terreno sulla “possibile soluzione” che l’Ucraina rinunci a parte del suo territorio in cambio dell’adesione alla NATO. Gli ucraini sono ovviamente insorti: il consigliere presidenziale

Mykhailo Podolyak ha bollato come “ridicola e offensiva” la proposta di Jenssen, costringendo la NATO a ribadire ufficialmente che continuerà “a sostenere l’Ucraina per tutto il tempo necessario” e che “l’Ucraina deciderà quando e a quali condizioni sarà raggiunta la pace”.

A questo punto, forse qualcuno nelle cancellerie europee comincerà a rimpiangere l’accordo di pace sostanzialmente raggiunto tra marzo e aprile del 2022, e che l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennet, allora in funzione di mediatore, ha recentemente confermato. L’intesa, che prevedeva la rinuncia dell’Ucraina alla NATO e la creazione di una zona smilitarizzata nella parte orientale del paese in cambio del ritiro russo, secondo Bennett venne fatta saltare da Boris Johnson che voleva piegare la Russia con le armi e che riuscì a portare dalla sua parte anche gli americani.

Gli spazi di compromesso si sono fatti strettissimi e ormai il conflitto russo-ucraino si è avviato su un binario di non ritorno in cui inevitabilmente emergerà un vincitore e un vinto sul campo di battaglia. Sperare in un congelamento del conflitto lungo una linea di cessate il fuoco, secondo lo schema coreano, è allo stato del tutto irrealistico perché rappresenterebbe solo una tregua temporanea e comunque non sarebbe accettato da nessuna delle due parti.

Giovanni Fantozzi

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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