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Venticinque anni fa, il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino veniva ucciso dalla Mafia insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva la madre. Una Fiat 126 piena di tritolo esplose uccidendo oltre a Borsellino anche i cinque agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Un mese prima di quella autobomba, un mese dopo la strage di Capaci dove morì Giovanni Falcone, Lamberto Sposini realizzò quella che sarebbe rimasta l'ultima intervista televisiva al giudice Borsellino.
In vista del 19 luglio pubblicheremo un ricordo al giorno del magistrato. E cominciamo proprio dalla fine. Da quella ultima intervista.
Posso chiederle se lei si sente un sopravvissuto?
Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: 'Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano'.
L'espressione di Ninnì Cassarà io potrei anche ripeterla ora, ma vorrei poterla ripetere in un modo più ottimistico. Io accetto le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare e... dalla sensazione che o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro.
Redazione Pressa
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