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Qualche ora fa si è materializzata l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. L’epilogo della ‘Brexit’ non smentisce il complicato rapporto tra Londra e le Istituzioni comunitarie, ma conferma l’atteggiamento di chi è entrato in Europa mantenendo lo sguardo fisso sull’uscita di emergenza. Sappiamo tutti che il Regno Unito, pur essendo dentro, ha sempre mantenuto un piede fuori. Tale atteggiamento non dovrebbe sorprenderci.Tale atteggiamento è parte integrante di un Regno che ha sempre rivendicato il proprio isolamento nei confronti dell’Europa continentale e che non ha mai visto di buon occhio l’adesione ad alleanze od organizzazioni che rischiassero di compromettere la propria libertà di scelta.
Questa particolare caratteristica del Regno Unito nei confronti del ‘resto del mondo’ ha riscontrato delle eccezioni laddove le circostanze o le emergenze del momento imponevano l’accettazione – sempre condizionata – di alleanze e organizzazioni che Li permettessero di stare a riparo da pericoli e ostilità provenienti dall'esterno.
Dalla Quadruplice all’Entente Cordiale, dalla partecipazione insieme agli alleati nella seconda guerra mondiale fino ad arrivare all’Alleanza Atlantica, il ruolo di Londra nelle alleanze e organizzazioni di vario tipo è spesso stato motivato sia in chiave anti-egemonica, sia tutelando i propri scambi commerciali e senza prevedere delle cessioni di alcun tipo. In sostanza, le alleanze e organizzazioni, per il Regno Unito, hanno sempre avuto uno scopo ben preciso e, a volte, di breve periodo.
Si tratta di un approccio utilitaristico che è stato messo in atto anche di fronte all'Europa.
Dal solito isolazionismo a un ridimensionamento non percepito
Per quanto riguarda il continente europeo, il Regno Unito si è considerato un manovratore esterno degli eventi o dei mutamenti che garantivano o modificavano un certo ordine politico nel Continente.
Sin dal ‘700, Londra ha percepito sé stessa quale entità in grado di spostare gli equilibri europei senza la necessità di buttarsi a capofitto nelle logoranti dinamiche del continente. Questa percezione, che aveva preso forma con la rivoluzione industriale, si rafforzava con una preponderanza militare di inizio ‘800 basata sul predominio navale e una particolare attenzione sul Continente.
Seppur ridimensionata da eventi di portata globale che hanno sconvolto gli equilibri europei, questa narrazione non ha perso il suo vigore. Ad esempio, eventi come l’indipendenza degli Stati Uniti, pur indebolendo l’Impero, non hanno mai rappresentato un elemento di svantaggio nei confronti del resto Continente. Allo stesso tempo, le due guerre mondiali che hanno decretato la fine della centralità europea, non hanno significato – per i londinesi – il tramonto come Potenza se paragonati al resto di Europa.
In seguito, mantenendo un rapporto privilegiato con le ex-colonie americane ormai trasformate negli Stati Uniti d’America, contando su un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, partecipando attivamente nel processo di distensione in cui – per ovvie ragioni – gli Stati Uniti e l'Urss sono stati i veri protagonisti e preservando il tessuto del Commonwealth, il Regno Unito ha cercato di collocarsi come Potenza immune ed estranea all’inarrestabile declino politico, economico e militare di un’Europa spartita tra le due Superpotenze di allora.
Dai no di Tatcher alla Brexit: Una separazione in continuità.
Per quanto riguarda la propria partecipazione nel processo d’integrazione europea, Londra è sempre apparsa aperta al mercato unico ma meno disposta ad accettare ulteriori stadi di integrazione. L’esempio migliore possiamo osservarlo nella politica della stessa Thatcher che, in occasione del referendum del ’75, aveva sostenuto il Sì alla permanenza del Regno Unito in Europa per non diventare “l’impero del sole calante”, per poi esprimere, 15 anni dopo, un ‘No’ agli accordi di Schengen, un’agguerrita opposizione contro l’idea di organizzazione comunitaria proposta da Delors e contro la proposta di una moneta unica. Altre polemiche si presenteranno di fronte allo stesso Trattato di Lisbona nel 2007 mentre nel 2013 il Regno Unito dirà di ‘no’ al Patto di Bilancio comune.
Le spinte anti-europeiste torneranno a manifestarsi con più forza durante il governo Cameron, il quale, proponendo un altro referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE, scongelerà una frattura che sembrava essere rimasta circoscritta all’interno del Partito Conservatore ma che in realtà darà vita a un processo irreversibile, i cui effetti verranno percepiti con più forza nel lungo periodo.
Dallo SME a Maastricht, e da Maastricht a Lisbona, ogni passo avanti nel processo di integrazione europea è stato inteso come qualcosa di contrario e controproducente agli interessi del Regno Unito. Ogni vincolo in più con l’Europa avrebbe significato sacrificare delle ampie porzioni di libertà nella politica estera di chi continua a vedere sé stesso come un Impero.
In conclusione, l’epilogo di questo capitolo chiamato Brexit si pone in continuità con i rapporti che Londra ha sempre sostenuto con il resto dell’Europa. I rapporti di chi si è sempre sentita vicina ai “continentali” senza però permettere un coinvolgimento tale da considerarsi “dentro”.
D'altro canto, per il Regno Unito, il declino dell'Europa in quanto attore globale non è il suo. In verità, Londra ritiene di potersela giocare ancora facendo a meno di un Europa fin troppo debole e indecisa e focalizzando il proprio sguardo verso gli Stati Uniti e il Commonwealth.
Scartando le ipotesi di presunti effetti domino che, secondo alcuni, l'uscita di Londra potrebbe provocare in Europa, il dopo Brexit lascia aperte diverse interroganti, come per esempio: nel caso del Regno Unito, che ne sarà della Scozia? Quali e come saranno i rapporti di Londra con l’UE? E nel caso dell’Europa, l’Unione diventerà più coesa senza di Londra oppure rimarrà ferma allo stesso punto?
Estefano Tamburrini