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Il Regno Unito è appena entrato in campagna elettorale. La Camera dei Comuni ha approvato con 438 voti favorevoli e 20 contrari una mozione presentata dal governo che avvia l'iter per le elezioni politiche.
I cittadini britannici saranno chiamati alle urne il prossimo 12 dicembre per la terza volta in quattro anni. Le precedenti tornate elettorali si tennero nel 2015 e nel 2017 e risultarono entrambe nel successo dei conservatori.
Molto è cambiato dalle elezioni del giugno 2017. Theresa May non è più alla guida del governo. Il suo accordo di uscita dall'Unione è stato sonoramente bocciato dal parlamento per tre volte. Dopodiché, abbandonata dal suo partito ed esautorata dalle débâcles parlamentari, si è dimessa. Al suo posto è subentrato l'esuberante Boris Johnson, entrato al Numero 10 gridando “fuori dall'Ue il 31 ottobre, con o senza accordo”.
Johnson è riuscito a ottenere un nuovo accordo ma il parlamento si è rifiutato di votarlo. Westminster voleva prima ottenere un'ulteriore estensione della Brexit per evitare il no deal, cioè l'uscita senza accordo. Bruxelles ha infine concesso la proroga – fino al 31 gennaio 2020 – e Johnson è ora determinato più che mai ad andare a nuove elezioni. Jeremy Corbyn, capo del partito laburista, ha colto il guanto della sfida e ha ordinato ai suoi di approvare la mozione per andare ad elezioni.
La situazione di Johnson in questo parlamento è precaria a dir poco. La maggioranza è risicata e i Remainers prevalgono. Il primo ministro è giunto alla conclusione che occorre cambiare gli equilibri parlamentari per portare a compimento la Brexit. Per cominciare, Johnson vuole rafforzare il partito e portarlo alle elezioni compatto e per fare ciò ha riammesso dieci dei ventuno deputati che aveva cacciato poche settimane fa.
Si preannuncia una campagna elettorale fortemente polarizzata. In un certo senso potrebbe essere una riedizione del referendum del giugno 2016 in quanto ci sarà uno scontro senza quartiere tra i sostenitori della Brexit (i conservatori), coloro che vogliono come minimo ritardarla o sottoporla a una nuova consultazione referendaria (i laburisti) e infine coloro che vogliono che il Regno Unito rimanga nell'Ue (nazionalisti scozzesi e liberal-democratici). Questa potrebbe essere la madre di tutte le battaglie sulla Brexit. A quasi tre anni e mezzo dal famigerato referendum, il Regno Unito è ancora intrappolato nella crisi politica scaturita dalla questione europea, argomento che più di tutti polarizza gli animi britannici.
Per uscire entro il 31 gennaio 2020 – cioè per mettere fine una volta per tutte alla facenda – occorre una netta vittoria dei tories, cioè un nuovo equilibrio parlamentare favorevole all'attuale governo, e quindi alla Brexit. Un parlamento in cui i conservatori hanno una maggioranza risicata – come questo, frutto delle infauste elezioni del 2017 – non produrebbe la rottura dello stallo.
Laburisti, liberal-democratici e nazionalisti scozzesi sono, con gradazioni diverse, contrari alla Brexit. Qualora dovessero vincere i laburisti è presumibile che essi chiedano un'ulteriore revisione dell'accordo d'uscita, oppure un secondo referendum oppure un referendum confermativo dell'accordo di uscita. In ogni caso l'uscita entro il 31 gennaio, cioè un mese e mezzo scarso dopo le elezioni, sarebbe in dubbio.
Una vittoria dei tories restituirebbe invece una solida maggioranza parlamentare in grado di ratificare l'intesa raggiunta con Bruxelles e mettere così fine alla più grave e lunga crisi politica che il Regno Unito ha conosciuto negli ultimi decenni.
Massimiliano Palladini
Redazione Pressa
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