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Un nuovo ordine illiberale sta prendendo sempre più forza. Lo scenario politico mondiale diventa sempre più frammentato e, anziché cedere spazio a un eventuale multilateralismo, le Potenze in gioco rivendicano sempre più spazio: interferiscono ovunque possano permetterselo, esercitano pressione sui più piccoli e puntano ad allargare il divario tra i Paesi ricchie quelli più poveri, tra loro e gli altri.
L’ascesa di Pechino e Mosca e la loro presenza capillare in Europa, l’indebolimento degli Stati occidentali dinanzi a un mercato che sposta il proprio baricentro dall’Atlantico al Pacifico, nonché l’isolazionismo di Washington, sono alcuni degli elementi che indicano il declino dell’ordine liberale. Dall’altra parte, non mancano gli appelli per abbracciarsi alle poche certezze cherimangono: i confini, la Nazione, la Religione, spesso la “razza” e l’identità in sé.
Sembra che la corda della
globalizzazione sia stata tirata fino al punto di provocare la reazione contro sé stessa, contro tutto ciò che essa rappresenta e, in più, contro l’ambiguità di un concetto molto abusato negli ultimi anni.
Questa reazione porta con sé una serie di critiche ai danni del liberalismo, della democrazia e della loro sintesi denominata liberaldemocrazia, cercando di dimostrare come questi presupposti finiscano per fare gli interessi di un’elite a discapito del popolo, dei suoi interessi e delle sue necessità. Sembra che la pretesa sia sempre quella di smontare i valori liberali mettendo alla luce tutte le sue contraddizioni a livello politico, sociale ed economico.
In poche parole secondo, la tesi revisionista, la democrazia, sottoponendo le decisioni alla maggioranza, sottomette la qualità alla quantità; il liberalismo in sé, poi, nella sua concezione dell’individuo, finisce per fare tutto tranne che gli interessi dello Stato, smontandone la sovranità fino alla sua svendita e, finalmente, la liberaldemocrazia, come sintesi di questi due difetti, sottoporrebbe il destino dei Popoli a governi sempre più fragili e incapaci.
Giunti a questo punto della tesi illiberale, premesso che i governi liberaldemocratici non sono in grado di rappresentare il volere di un Popolo, la classe politica che li compone non sarebbe altro che il residuo di una generazione che, subendo l’assuefazione del benessere, della ricchezza e delle comodità contemporanee, non si è dimostrata in grado di prendere il testimone lasciato dalla storia. Se, dunque, la classe politica non appare più in grado di materializzare i valori, i princìpi e simboli che fanno da collante per una Nazione o per una Comunità qualsiasi, è da aspettarsi che l’antipolitica sia la variabile che determini l’esito delle elezioni in uno scenario qualsiasi.
A questa tesi, si aggiunge un’interpretazione della politica estera come riflesso di quella interna, secondo la quale, governi deboli composti da una classe dirigente carente di legittimità non sono in grado di rappresentare la volontà dei loro Popoli né di difendere l’interesse dei loro Stati, ma chiudendosi all’interno di un elite autoreferenziale prendono delle decisioni distanti dalle necessità reali dei loro Paesi.
Questa lettura della politica estera è un punto di forza nella delegittimazione di un ordine liberale i cui fautori non riescono ad arginare le rivendicazioni provenienti da potenze revisioniste tra cui la Cina e la Russia, le quali vantano un peso consistente nel sistema internazionale e alle quali viene attribuita la virtù di avere una maggiore stabilità dovuta a “governi forti” in grado di prendere delle decisioni concrete e non soggette a dei continui cambiamenti al vertice dello Stato, né a dei vincoli esterni come accade spesso nel caso degli Stati occidentali.
Per quanto riguarda le esternazioni pronunciate dai promotori di questa tesi, queste ultime attirano il consenso dell’opinione pubblica dell’Europa occidentale riuscendo in un modo o nell’altro a influenzare il consenso a determinati attori politici. Premesso che tutto questo è lecito in politica e che ora sembra scorretto perché viene usato contro i liberaldemocratici che si sono sempre avvalsi di collegamenti e alleanze con l’esterno per preservare il potere nei rispettivi Paesi, c’è da ammettere che nel caso italiano l’amicizia di alcuni politici – in particolare di Matteo Salvini, ma anche degli esponenti del Movimento Cinque Stelle – con Trump e Putin è un chiaro indizio dell’affinità con una certa visione del Mondo.
E questo non può essere contrastato ricordando il carattere ormai storico delle relazioni internazionali che vincolano Roma sia a Washington sia a Mosca le quali sono fondamentali ma che, in quanto relazioni diplomatiche, non hanno la necessità della carica ideologica con la quale, in questi tempi, vengono farcite.
La tesi revisionista non è da sottovalutare, ma bisognerà comprenderla man mano che essa continuerà a prendere spazio nell’attuale sistema internazionale, soprattutto a dal momento in cui sono gli stessi costruttori dell’ordine liberale, a diventare i protagonisti di un nuovo ordine illiberale.
Estefano Tamburrini