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Con i suoi Indicatori Demografici dell'anno 2019 l'Istat ha scattato una fotografia i cui contorni conosciamo già benissimo. In Italia le nascite sono sempre di meno e le morti sempre di più, di conseguenza il rapporto tra anziani e giovani sfavorisce questi ultimi. In due parole, la popolazione italiana sta diminuendo ed è sempre più anziana.
L'Italia è un paese di vecchi. Non sorprendiamoci quindi se i politici decidono di abbassare l'età pensionabile piuttosto che fare politiche a favore dei giovani, i quali, oltre ad essere meno, votano anche meno. Per il politico è quindi molto più profittevole diminuire l'età pensionabile o aumentare le pensioni piuttosto che investire in istruzione e ricerca o ridurre il costo dei testi scolastici per le famiglie. Il politico, anzi il politicante, guarda al massimo alla prossima scadenza elettorale. Lo statista invece agisce diversamente.
Egli guarda ai prossimi decenni, alle prossime generazioni. Purtroppo la figura dello statista mal si presta a un sistema politico come quello italiano, caratterizzato da camaleontismo, giravolte parlamentari e mani legate all'esecutivo (leggasi instabilità cronica).
È questo il problema della questione demografica, che è poi quello di tutte le grandi questioni. Per la classe politica è estremamente rischioso affrontarle, in quanto i risultati dell'azione politica non si palesano mai nel breve periodo. La gente comune, cioè la larga maggioranza del paese, non vede, non tocca, non sente nel corso della vita quotidiana la questione demografica. In apparenza. Essa invece tocca da vicino ciascuno di noi, in particolare le nuove generazioni. Essa è in grado di destabilizzare gli equilibri economici e sociali del nostro paese facendo collassare su stesso lo stato sociale o imponendo una sua radicale e traumatica trasformazione.
Ma la questione demografica in realtà altro non è che una dimensione della più grande e grave di tutte le questioni, quella relativa al declino dell'Italia. Un declino che investe la crescita economica (stagnante dai primi anni Novanta), la stabilità finanziaria (altissimo debito pubblico), il divario Nord-Sud (il più grande fallimento dell'Italia unita), la cultura e l'istruzione (siamo tra i paesi europei che investono meno in istruzione e ricerca e con meno laureati pro capite), la rilevanza del nostro paese in politca estera (i recenti sviluppi della guerra civile libica sono sotto gli occhi di tutti), l'architettura istituzionale (il numero di governi è quasi pari agli anni di repubblica) e infine, appunto, la demografia.
Alcuni problemi sono comuni a tutto il periodo repubblicano (instabilità politica e scarsi investimenti in istruzione e ricerca) altri (stagnazione economica, crescita del debito pubblico e crisi demografica) si sono aggravati, o sono comparsi, negli ultimi tre decenni.
La gente comune percepisce questi discorsi come astrazioni non perché sia stupida ma perché nella vita quotidiana deve occuparsi di questioni più urgenti, come guadagnarsi da vivere, per dirne una. La classe politica, che almeno in teoria dovrebbe essere consapevole dell'impellenza delle grandi questioni, al momento non è in grado, o non vuole, prenderle di petto. I mezzi d'informazione si occupano principalmente di fare da eco alla classe politica. Di conseguenza, la questione demografica, insieme alla questione del declino nazionale, è spinta con forza ai margini del dibattito pubblico, inquinato dalla cronaca politica quotidiana, sempre più caratterizzata da frasi con un numero limitato di caratteri.
Massimiliano Palladini
Redazione Pressa
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