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Parole violentissime e disturbanti. “Chiunque si dedichi al separatismo in qualsiasi parte della Cina sarà ridotto in polvere e fatto a pezzi”. Con questa dichiarazione raccapricciante, pronunciata ieri durante una visita di Stato in Nepal, il presidente cinese Xi Jinping ha avvertito i movimenti separatisti che minacciano l'integrità territoriale della Repubblica Popolare. Xi ha lanciato un appello anche verso l'esterno. “Ogni forza esterna che supporta la divisione della Cina si illude” ha aggiunto.
Non è un caso che il presidente cinese pronunci queste parole proprio in Nepal. Il piccolo paese himalayano confina infatti con il Tibet, vasto altopiano controllato da Pechino che ha una lunga storia di separatismo. Conquistato dalla Cina nel 1950, il Tibet è ufficialmente una regione autonoma della Repubblica Popolare. Nel corso dei decenni non sono mancate tensioni e rivolte della popolazione locale contro l'occupazione cinese.
Il Tibet è una regione strategica sia per la sua vastità (1,5 milioni di chilometri quadrati, circa cinque volte l'Italia) sia per la sua altitudine. Pechino non è disposta a rinunciarvi.
Il monito anti-separatista di Xi Jinping è rivolto a tre aree molto strategiche della Cina: Tibet; Xinjiang; Hong Kong. Del Tibet si è già detto. Per quanto riguarda lo Xinjiang, si tratta di una regione situtata all'estremità occidentale della Cina abitata in maggioranza dagli uiguri, una popolazione turcofona di religione islamica. Lo Xinjiang – anch'esso ufficialmente autonomo – è la più vasta regione cinese (circa 1,6 milioni di chilometri quadrati) ed è strategico in quanto si affaccia sull'Asia centrale, permettendo a Pechino di proiettare la propria influenza in questa regione. Diverse importanti infrastrutture passano per lo Xinjiang, tra cui alcuni corridoi commerciali terrestri della Belt and Road Iniative.
Anche lo Xinjiang ha una lunga storia di separatismo e di conflitto con Pechino. In questa remota e desolata regione (appena una ventina di milioni di abitanti su una superficie che è più di cinque volte l'Italia) la tensione tra la popolazione uigura e le autorità cinesi ha assunto connotati particolarmente violenti. Nel luglio 2009 scontri ad Urumqi – capitale dello Xinjiang – causarono circa duecento morti e quasi duemila feriti. La Cina attualmente sta attuando una campagna di repressione finalizzata a scongiurare nuove eruzioni di violenza separatista. La politica repressiva cinese nello Xinjiang è stata denunciata a livello internazionale – per esempio dal dipartimento di Stato americano – perchè viola i diritti umani della popolazione locale.
In merito ad Hong Kong i fatti sono arcinoti. La metropoli finanziaria – colonia britannica fino al 1997 – è da mesi paralizzata da manifestazioni, spesso violente, tra la folla che chiede democrazia e vera autonomia dal governo centrale e le forze dell'ordine. L'intensità degli scontri non ha fatto altro che salire e all'orizzonte non si vedono segnali che fanno sperare in un abbassamento della tensione.
L'instabilità interna della Cina impone una riflessione sulle ambizioni del presidente Xi Jinping, il quale vuole compiere il sogno cinese – ovvero il riscatto della nazione dopo il secolo delle umiliazioni (1839-1949) – entro il 2049, quando si celebrerà il centenario della proclamazione della Repubblica Popolare.
Negli ultimi decenni la Cina ha conosciuto una crescita economica sfrenata che l'ha portata ad essere la seconda economia del pianeta e un paese all'avanguardia nel settore della tecnologia. La crescita economica si è tradotta da un lato nel potenziamento e nell'ammodernamento delle forze armate, dall'altro nella proiezione dell'influenza economico-finanziaria all'estero, specie attraverso investimenti infrastrutturali. Nel mentre riforme costituzionali hanno accentrato tutti i poteri nella figura di Xi e le rivendicazioni territoriali di Pechino nei mari circostanti stanno intimorendo tanto i paesi limitrofi quanto gli Stati Uniti. Washington percepisce Pechino come principale competitore strategico. La Cina sembra l'unico paese in grado di scalfire la supremazia globale a stelle strisce.
Secondo alcuni nei prossimi decenni la Cina è destinata a sostituirsi agli Stati Uniti nel ruolo di tutore dell'ordine internazionale. Considerando la fragilità del suo assetto territoriale la Cina appare come un gigante dai piedi d'argilla le cui ambizioni vanno per forza di cose riconsiderate.
Le proteste di Hong Kong dimostrano la fragilità della Cina, un paese che per certi aspetti è ancora un impero. Le due regioni più vaste del paese – Xinjiang e Tibet – si trovano alla frontiera e sono abitate in maggioranza da popolazioni che dal punto di vista etnico e culturale non hanno nulla a che fare con gli han, ovvero l'etnia maggioritaria in Cina. Tibetani e uiguri si sentono sotto occupazione e sono nati movimenti separatisti per contrastare l'autorità di Pechino. Hong Kong – che è una delle metropoli più importanti del paese – ha avuto una storia particolare che la rende radicalmente diversa dal resto della Cina. Alle radici storiche delle proteste bisogna aggiungere anche una situazione economico-sociale frustrante, soprattuto per le giovani generazioni.
L'annuncio brutale di Xi Jinping ci ricorda che la Cina è un paese poco coeso, fragile, la cui integrità territoriale è minacciata da forze endogene e dove il governo fa ricorso alla repressione per annullare le minacce destabilizzatrici.
Alla luce di quanto detto occorre rivalutare le ambizioni di Pechino in ambito internazionale, tenendo presente che l'altro sfidante – gli Stati Uniti – non ha simili problemi di coesione territoriale.
Massimiliano Palladini
Redazione Pressa
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