Da anni Lapressa.it offre una informazione libera e indipendente ai suoi lettori senza nessun tipo di contributo pubblico. La pubblicità dei privati copre parte dei costi, ma non è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge, e ci segue, di darci, se crede, un contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di
modenesi ed emiliano-romagnoli che ci leggono quotidianamente, è fondamentale.
Gli anni 70 sono ricordati, sostanzialmente, come il decennio della lotta armata, ovvero quel periodo di “lucida follia” che un grande giornalista come Sergio Zavoli definì, in maniera geniale e illuminante, come “la notte della Repubblica”. Il punto probabilmente più basso, o più alto (a seconda di come lo si vuole interpretare, ma sempre e comunque negativamente), fu sicuramente il sequestro Moro. Un periodo lunghissimo, 55 giorni, nei quali la strategia terroristica sfida “in grande stile” lo stato ed il senso della gente per la Repubblica. Una sfida all’ordine democratico che, se oggi potrebbe considerarsi quasi del tutto velleitaria, ai tempi non poteva certo ritenersi scontata.
Lo statista democristiano, responsabile di 5 governi tra il 1964 e il 1975, era fortemente impegnato nell’operazione del cosiddetto “compromesso storico”, attraverso i governi di solidarietà nazionale (assieme al Partito Comunista diretto da Enrico Berlinguer), ed era in quel periodo riconosciuto e riconoscibile come indiscusso protagonista della vita politica italiana da almeno un paio di decenni.
Era dunque considerato dal terrorismo di matrice comunista come uno dei simboli di quella che chiamavano la controrivoluzione imperialista.
Il 16 marzo del 1978 Aldo Moro viene rapito da un commando delle Brigate Rosse. Interrogato e “processato” dai brigatisti, viene tenuto prigioniero fino al 9 maggio dello stesso anno quando, a seguito di una telefonata anonima il suo corpo viene fatto ritrovare privo di vita, giustiziato da un cosiddetto “tribunale popolare”, all’interno di una Renault 4, in via Caetani a Roma.
Il famigerato Comunicato numero 6 delle Brigate rosse del 15 aprile 1978, con il consueto inconfondibile stile aveva sentenziato severo e tragico: “L'interrogatorio al prigioniero Aldo Moro è terminato. Rivedere trenta anni di regime democristiano, ripercorrere passo passo le vicende che hanno scandito lo svolgersi della controrivoluzione imperialista nel nostro paese… non ha fatto altro che confermare delle verità e delle certezze che non da oggi sono nella coscienza di tutti i proletari.
I proletari, gli operai, tutti gli sfruttati conoscono bene che cosa significa il regime democristiano, perché l'hanno vissuto e lo vivono sulla loro pelle… Le responsabilità di Aldo Moro sono le stesse per cui questo Stato è sotto processo. La sua colpevolezza è la stessa per cui la DC ed il suo regime saranno definitivamente battuti, liquidati e dispersi dall'iniziative delle forze comuniste combattenti. Non ci sono dubbi. ALDO MORO E' COLPEVOLE E VIENE PERTANTO CONDANNATO A MORTE.”
L’attesa della “esecuzione” durerà tuttavia un mese, periodo nel quale la politica italiane si dibatterà tra dure polemiche, divisa tra coloro i quali sono per la fermezza di non cedere alle richieste dei rapitori e coloro i quali invece intenderebbero trattare coi terroristi. L’equilibrio istituzionale, come nelle intenzioni dei terroristi, viene messo a dura prova ma alla fine, vista la rigidità formale delle istituzioni, la sentenza viene eseguita.
Se la notizia del rapimento aveva lasciato il paese sgomento, la notizia della sua uccisione provoca nel paese una reazione di orrore unanime come poche volte si era vista nella storia della giovane Repubblica italiana. Fu quello, probabilmente, uno dei momenti più critici e pericolosi per la stabilità democratica del nostro paese, attaccato anche (si scoprirà poi in futuro) da organi interni al mondo istituzionale.
Non possiamo certo accreditare di forza propulsiva, innovativa e moralizzatrice gli attori delle forze politiche di allora, intente molto più a gestire il presente che non a progettare il futuro del paese (con le conseguenze che poi potremo “apprezzare” in futuro). Ma ci domandiamo spesso, affrontando il ricordo di quei cosiddetti “anni di piombo”, quale sarebbe stato il risultato se a gestire quel momento ci fossero stati i protagonisti della politica dei giorni nostri. Lasciamo al lettore il “divertimento” di scambiare i nomi dei protagonisti di allora con quelli di oggi e ad immaginare i risultati…
Mirko Ballotta