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«Il primo vero dolore collettivo del dopoguerra fu causato da una sciagura sportiva». Così scrive Paolo Spriano – noto studioso autore di una monumentale Storia del Partito comunista italiano in più volumi (tutti editi da Einaudi) – a proposito della tragedia di Superga del 4 maggio 1949, quando l’aereo che trasportava i calciatori del Grande Torino si schiantò contro il muro della basilica. L’episodio suscitò enorme emozione popolare, con i funerali che si trasformarono in un momento di grande commozione generale in tutta la penisola.
Da Superga – dramma sportivo di un paese che si affannava per lasciarsi definitivamente alle spalle le macerie, morali e materiali, della guerra – prende le mosse un’interessante riflessione di Stefano Pivato e Anna Tonelli (entrambi docenti di Storia contemporanea presso l’Università di Urbino), contenuta in un bel libro che, a dispetto degli anni accumulati, conserva intatto un innegabile acume interpretativo: Italia vagabonda.
Il tempo libero degli italiani dal melodramma alla pay-tv
(Carocci, 2001). Scrivono i due storici: «Nell’immaginario collettivo la morte del campione dello sport, espressione di vitalismo, crea sempre una forte emozione e la scomparsa di grandi campioni dell’automobilismo (Varzi nel 1948, Ascari nel 1955, più di recente Ayrton Senna) o del ciclismo come Fausto Coppi nel 1960 produce una suggestione tale da far diventare gli atleti scomparsi dei veri e propri miti, costituendo uno dei momenti più caratteristici delle passioni popolari del secondo dopoguerra».
Superga si inserisce perfettamente in questo contesto, al punto che – secondo alcuni studiosi – con essa inizia a diffondersi capillarmente una sorta di “febbre” calcistica destinata a trasformare il football nello sport più seguito dagli italiani. Ciò non toglie, tuttavia, che nell’Italia degli anni Quaranta-Cinquanta sia ancora stabilmente il ciclismo lo sport più popolare, grazie soprattutto alla straordinaria rivalità che vede contrapposti due campioni leggendari: Gino Bartali e Fausto Coppi.
Simboli non solo sportivi, i due assi del pedale riscattano, nell’immaginazione di tifosi e appassionati, un paese uscito distrutto e umiliato dalla guerra (un paese peraltro ancora estremamente povero e arretrato, come documentano – tra le proteste soprattutto della maggioranza democristiana – capolavori del neorealismo quali Ladri di biciclette e Paisà).
Ma non solo. Come sottolineano Pivato e Tonelli, Coppi e Bartali – rispettivamente cinque e quattro Giri vinti – «fanno anche uscire, almeno per un periodo, la corsa rosa da quello stato di inferiorità che aveva da sempre vissuto nei confronti del più “nobile” Tour de France. […] Di più, sono gli eroi del Giro che vanno a vincere in terra francese. Coppi (1949 e 1952) e Bartali (1938 e 1948) dominano una corsa che il tradizionale sciovinismo francese ha eletto a mitologia popolare, […] in un ciclismo che non è solo agonismo ma rappresentazione dell’orgoglio e del primato nazionale».
Nella fantasia popolare, Bartali e Coppi sono modelli antitetici, simboli di due Italie in competizione. Al campione toscano, idolo della DC, che rappresenta il vecchio e la tradizione, le sinistre contrappongono il giovane Coppi, incarnazione della modernità e del progresso. Bartali, in particolare, viene presentato dall’apparato propagandistico cattolico quale «magnifico atleta cristiano» e – come afferma addirittura papa Pio XII – «modello ed esempio da imitare». Ed è questa appropriazione, a ben vedere, a spostare le preferenze di comunisti e socialisti verso un Coppi del quale, in realtà, si ignorano le convinzioni politiche, in un’Italia che si divide su tutto, tra USA e URSS, destra e sinistra, Loren e Lollobrigida, don Camillo e Peppone.
A consolidare, poi, il mito romantico di Bartali è l’impresa al Tour del 1948 – dieci anni dopo la prima affermazione –, che secondo la retorica democristiana salva il paese dalla guerra civile nelle drammatiche ore successive all’attentato a Togliatti. Scrivono al riguardo Pivato e Tonelli: «L’Italia moderata e democristiana celebra Bartali “salvatore della patria” allorché, il 14 luglio 1948, a poche ore dall’attentato a Togliatti, il ciclista toscano vince una memorabile tappa pirenaica ipotecando il successo nella Grande Boucle. L’Italia piomba sull’orlo della rivoluzione. Le piazze si infiammano. Da qualche parte rispuntano le armi dei partigiani. Ma dalla Francia, via radio, arriva la notizia che Bartali è maglia gialla. La folla si placa e qualcuno attribuisce il merito alla vittoria di Bartali. Secondo l’opinione moderata, “la rivoluzione era stata sdrammatizzata a colpi di pedale” e “Bartali aveva battuto Di Vittorio”».
Nell’Italia bacchettona e democristiana degli anni Cinquanta, Coppi fatica in effetti a tenere testa a Bartali, non tanto in sella alla bicicletta – l’atleta toscano è ormai a fine carriera –, quanto piuttosto a livello di immagine. A penalizzare il piemontese, inoltre, è lo scandalo – increscioso, per l’opinione pubblica dell’epoca – della cosiddetta “Dama bianca”: l’adulterio, infatti, è un peccato imperdonabile che macchia indelebilmente la reputazione del campione, il quale – come vuole la tradizione melodrammatica – potrà riconciliarsi con il mondo dei tifosi – ed entrare definitivamente nella leggenda – solo in seguito alla prematura scomparsa nel 1960.
Con gli anni Sessanta, dopo il ritiro di Bartali e la morte di Coppi, il ciclismo finisce fatalmente per perdere buona parte del proprio tradizionale fascino, legato al mito della strada quale luogo simbolico dell’incontro tra sogno (del viaggio, della fuga, dell’evasione) e sacrificio. Nell’Italia dell’automobile e del televisore, in pieno boom economico, nel cuore della gente comune la bicicletta è rimpiazzata dal pallone. In un paese in costante crescita – che si è mostrato in piena salute al mondo anche grazie al successo organizzativo delle Olimpiadi di Roma (1960) – il calcio è il nuovo sport nazionale: aumentano infatti gli spettatori presenti negli stadi (+30% tra il 1953 e il 1963), gli incassi vanno alle stelle e si diffonde capillarmente il fenomeno del Totocalcio, autentica passione collettiva.
Questa sorta di cavalcata trionfale del pallone conosce una battuta d’arresto all’inizio degli anni Ottanta, con una sensibile diminuzione del pubblico che fa da cornice all’evento sportivo. Il calo degli spettatori, tuttavia, non è da ricondurre ad una perdita di interesse nei confronti del primo sport nazionale, ma va messo in relazione con lo sviluppo delle tv commerciali e con la crescita – in termini di popolarità, risultati e numero di praticanti – di altri sport quali il tennis, lo sci (un tempo considerati elitari), la pallacanestro e la pallavolo. Altro fattore decisivo è poi senza dubbio l’americanizzazione dei costumi degli italiani, percepibile attraverso l’introduzione di nuove attività (beach volley, wind-surf, free climbing) e di mode (fitness, salutismo e cura del corpo) estranee alla tradizione nazionale. Anche i miti – sportivi e non – in quest’ottica cambiano: giovanilismo, gusto del rischio e fascino del limite (sempre più estremo) fanno di un personaggio come Bartali – incarnazione dell’ideale del sacrificio, o se si preferisce simbolo della fatica che serve per raggiungere un traguardo – un’icona decisamente datata, non più “spendibile” per affascinare gli appassionati di sport (attratti, per converso, da atleti come Tomba o Panatta).
Scrivono Pivato e Tonelli: «Salute, bellezza, benessere ed efficienza fisica sono stati – e in parte sono tuttora – fra i valori emergenti della società italiana nel corso degli anni ottanta, rivelandosi come una moda di importazione ma anche come un’importante fonte di business. In queste profonde mutazioni sociali cambia anche il modo di ricezione dei grandi miti sportivi. Se Coppi e Bartali erano entrati nell’immaginario collettivo come espressione di traguardi da raggiungere attraverso la fatica, il sacrificio e il sudore, negli anni ottanta e novanta Alberto Tomba diviene l’emblema dell’Italia dello yuppismo trionfante. Tomba non è casto come il “pio” Bartali e la sua love story con Miss Italia non fa gridare allo scandalo l’ambiente tradizionalmente sessuofobico dello sport e quelle schiere di perbenisti che negli anni cinquanta avevano messo alla gogna Fausto Coppi. Ma Tomba, con i suoi guadagni miliardari, è soprattutto il simbolo del denaro facile che sponsor munifici versano nelle sue tasche per le sue capacità di essere non solo un campione sportivo ma, soprattutto, “personaggio”».
Lo sport, dunque – e specialmente nell’Italia consumistica degli anni Ottanta-Novanta, nella quale si stampano ben tre quotidiani sportivi –, non è più solo un passatempo, ma invade prepotentemente il campo della moda, della cultura e della politica. Con lo sviluppo delle televisioni, esso si trasforma in un grande spettacolo universale, attirando sponsor milionari e interessi che vanno ben al di là della mera competizione agonistica tra atleti. A partire da queste premesse risulta pertanto più comprensibile anche un’altra anomalia italiana, ovvero l’improvvisa clamorosa affermazione di un personaggio come Silvio Berlusconi, imprenditore semisconosciuto fino agli inizi degli anni Ottanta, che acquista un’improvvisa popolarità allorché assume la presidenza del Milan, una delle tre squadre di calcio più importanti del paese. Il futuro premier gestisce la società con criteri aziendalistici, e attraverso ingenti investimenti fa del Milan un grande club a livello europeo, conquistando numerosi trofei in Italia e all’estero. «Proprietario del più grande network privato italiano – scrivono Pivato e Tonelli –, Berlusconi con le sue reti televisive ha trasformato lo sport in un evento in grado di produrre soprattutto investimenti pubblicitari, dilatandone così ulteriormente il consumo come prodotto televisivo. E saranno proprio la popolarità e l’immagine vincente acquisita attraverso lo sport che Berlusconi trasformerà strumentalmente in una delle chiavi del suo successo politico in occasione delle elezioni politiche della primavera del 1994».
Berlusconi, in definitiva, ha vinto la propria scommessa politica sfruttando abilmente una propaganda mutuata, per così dire, dal mondo dello sport; una propaganda che utilizza slogan ed espressioni quali «gioco di squadra» e intervenire «a tutto campo», e che fa leva sulla giustapposizione tra il nome del partito (Forza Italia) e il grido dei tifosi che incitano la nazionale italiana di calcio. In un paese in cui lo sport ha acquisito negli anni una rilevanza sotto certi aspetti quasi unica al mondo, l’immagine di Berlusconi “atleta-politico” si è affermata con una forza, una decisione e – soprattutto – una rapidità che non conoscono precedenti nell’intera storia nazionale.
Luigi Malavasi Pignatti Morano