Da anni Lapressa.it offre una informazione libera e indipendente ai suoi lettori senza nessun tipo di contributo pubblico. La pubblicità dei privati copre parte dei costi, ma non è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge, e ci segue, di darci, se crede, un contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di
modenesi ed emiliano-romagnoli che ci leggono quotidianamente, è fondamentale.
Il 26 maggio del 1831, impiccato sul baluardo della Cittadella per volere del duca Francesco IV d’Austria-Este, moriva Ciro Menotti, patriota, «un uomo che fece l’Italia», come lo definì Mario Pecoraro in una bella biografia pubblicata da Il Fiorino nell’ormai lontano 1996. Nell’ultima lettera scritta poco prima di salire sul patibolo, Menotti volle indirizzare alla moglie Francesca Moreali questo pensiero: «Pensa ai figli e in loro seguita a vedervi il loro genitore, e quando l’età farà conoscere chi era dirai loro che era uno che amò sempre il suo simile».
Chi era dunque Ciro Menotti, il “martire” modenese che ispirò a Garibaldi il nome del primo figlio avuto da Anita?
Il futuro patriota nacque a Migliarina, frazione di Carpi, il 22 gennaio 1798 da Giuseppe e da Anna Bonizzi, in una famiglia benestante di commercianti e imprenditori.
Il padre, infatti, in età napoleonica si era arricchito avviando una redditizia attività nella lavorazione del truciolo, importante risorsa economica del territorio carpigiano.
Compiuti gli studi ginnasiali a Carpi, il giovane Ciro, quindicenne, venne ammesso alla scuola del Genio di Modena, prestigioso istituto che però di lì a poco fu soppresso dal duca Francesco IV. Probabilmente deluso da questa esperienza, Menotti decise di seguire il padre nella produzione e nel commercio dei cappelli di truciolo, dando subito prova di spiccate capacità imprenditoriali. A questo periodo risale inoltre l’incontro con la bella Francesca Moreali, sposata con Giuseppe Tori: la relazione – che inizialmente destò scandalo e che portò anche alla nascita di un figlio illegittimo – fu regolarizzata con il matrimonio nel 1819, allorché la donna rimase vedova.
Come imprenditore, Menotti dette prova di grande dinamismo e operosità.
Entrato in società con Antonio Lugli (vecchio giacobino, repubblicano, certamente uno dei responsabili della conversione “patriottica” del futuro “martire”, inizialmente convinto legittimista), nel 1821 il giovane carpigiano costituì un’agenzia per la spedizione delle merci che aprì ai prodotti paterni la via dei mercati inglesi e, in generale, fruttò lauti guadagni. Con il ricavato, Menotti acquistò una vasta tenuta a Saliceto Panaro e vi impiantò un opificio di filatura della seta, introducendo – primo caso nello Stato estense, che non mancò di impressionare il duca, il quale nel 1823 volle visitare la filanda – una macchina a vapore per la lavorazione dei bozzoli.
Questa attività fu tuttavia interrotta nel 1825, complice anche un dissidio con il Lugli, che aveva portato l’anno precedente allo scioglimento della spedizioneria. «Certamente – scrive al riguardo Mario Pecoraro – non è estranea alla chiusura una nuova idea del Menotti: l’utilizzo, con opportune modificazioni, della macchina a vapore per la “raffinazione delle nostrali acquaviti in ispiriti” e la “distillazione dei vini”». La distilleria – aperta a Saliceto nel 1825 –, dopo un inizio promettente fu però costretta a chiudere i battenti appena tre anni dopo, a causa di una grave crisi del commercio dell’acquavite. Né miglior fortuna ebbe la successiva impresa di Menotti – ovvero la costruzione di una fonderia a Casinalbo e di una ferriera a Vignola –, con il risultato che il futuro patriota tornò a lavorare nell’industria paterna, in un’azienda comunque in salute, che al tempo impiegava oltre mille persone.
In questi anni di intenso lavoro, tra successi e fallimenti (in parte dovuti anche alla miopia della politica ducale, che – scrive Pecoraro – «nega aiuti finanziari e agevolazioni, mentre dà a piene mani a clero e nobiltà»), Menotti figura come un giovane ambizioso e gaudente, sotto certi aspetti ribelle ma al contempo amante del lusso (ne è una prova il costosissimo palazzo di quaranta camere acquistato in corso Canalgrande a Modena) e dei divertimenti. Sedotto dalle argomentazioni del Lugli (di trent’anni più vecchio), il giovane Ciro si avvicinò con entusiasmo alle idee liberali, aderì alla Carboneria e nel 1821 subì un arresto con l’accusa di aver divulgato un proclama in latino – contenente l’invito a desistere dalla loro azione –, destinato ai soldati ungheresi di passaggio a Modena e diretti verso Napoli per reprimere l’insurrezione scoppiata l’anno precedente. L’esperienza della reclusione (quaranta giorni) fu senza dubbio significativa per Menotti, anche se, nel determinare una radicalizzazione della sua azione politica, furono probabilmente decisivi altri fattori, quali l’enorme impressione suscitata dall’esecuzione di don Giuseppe Andreoli (l’unico tra i dissidenti di quegli anni cui il duca – determinato a infliggere una condanna esemplare a un uomo che, in quanto sacerdote, risultava a suoi occhi più colpevole di chiunque altro – negò la grazia) e l’incontro con l’avvocato Enrico Misley.
Considerato da Mazzini un «imbroglione ed uomo non di veri e profondamente radicati principi», Misley era riuscito a guadagnarsi la fiducia di Francesco IV prospettandogli la possibilità di collaborare con gli ambienti liberali al fine di modificare l’assetto della penisola stabilito nel 1815 dal Congresso di Vienna. Per il duca, l’obiettivo di questa “congiura estense” – mirante a creare una monarchia costituzionale – era in sostanza quello di estendere i propri possedimenti ed, eventualmente, di subentrare come re di Sardegna a un Carlo Alberto screditato per via dell’atteggiamento ondivago tenuto durante i moti del 1821 (si tenga d’altro canto presente che Francesco IV aveva sposato Maria Beatrice Vittoria, figlia di Vittorio Emanuele I di Savoia). Non si hanno però certezze al riguardo: se infatti, da un lato, l’atteggiamento del duca pare improntato a cinico opportunismo (l’idea, cioè, era quella di ricavare il massimo vantaggio personale in caso di un sommovimento politico di grandi dimensioni), dall’altro va detto – come sostiene Franco Della Peruta – che il piano di Misley destinato a sedurre Menotti «appare carico di ambiguità e poco realistico», giacché «puntava […] tutte le sue carte su di un principe odiato dai liberali per la dura repressione da lui condotta nel 1821-22 e culminata nel supplizio del prete Giuseppe Andreoli».
Quello che è certo, ad ogni modo, è che nella seconda metà degli anni Venti Misley – di certo non all’insaputa del duca – iniziò a tessere la trama rivoluzionaria, prendendo contatti con i liberali francesi e gli esuli italiani all’estero. In questo oscuro armeggio Menotti – anch’egli in contatto con Francesco IV – si inserì verso la fine del 1829. Tuttavia, a differenza del Misley, l’imprenditore carpigiano palesò sin da subito una certa diffidenza nei confronti del duca, approdando a un vero e proprio atteggiamento di sospetto all’indomani della rivoluzione di luglio in Francia, quando apparve chiaro che il sovrano estense – con l’Europa in fermento – non avrebbe corso il rischio di allarmare l’Austria di Metternich. Ciò nondimeno, Menotti intensificò la propria attività cospirativa, viaggiando, scrivendo (risale al dicembre del 1830 il programma politico della “congiura”, imperniato sui concetti fondamentali di indipendenza, unione, libertà, regime costituzionale, Roma capitale e bandiera tricolore), raccogliendo denaro e armi, e, più in generale, approntando – scrive Della Peruta – «una rete organizzativa che irradiava i suoi “raggi” da Modena ai centri minori del ducato, alle Legazioni, alle Marche, a Mantova e a Parma».
L’insurrezione era prevista per il 5 febbraio 1831, ma si decise di anticiparla di due giorni allorché, la mattina del 3 febbraio, si venne a sapere che il duca aveva fatto arrestare alcuni congiurati, tra cui Nicola Fabrizi. Quella stessa sera, nella casa di Menotti di corso Canalgrande si radunarono 40 uomini decisi all’azione: tuttavia Francesco IV, informato del piano insurrezionale, fece affluire sul posto alcuni reparti ducali incaricati di intimare la resa ai cospiratori. Ne seguì un nutrito fuoco di fucileria che costò la vita a due soldati, un dragone e un pioniere. Menotti tentò la fuga dal tetto, ma, ferito ad una spalla, fu catturato insieme con gli altri insorti.
Quella stessa sera il duca redasse un proclama con cui informava la popolazione dello sventato pericolo, e istituì una commissione militare per giudicare sommariamente i ribelli. Il giorno 5, tuttavia, alla notizia che a Bologna era scoppiata l’insurrezione, Francesco IV – sentendosi minacciato e non potendo ricevere aiuto dal comandante delle forze austriache nel Lombardo-Veneto (il quale temeva a sua volta che la rivolta si estendesse nel nord Italia) – abbandonò Modena e si diresse alla volta di Mantova, fortezza del Quadrilatero, portando con sé il prigioniero Ciro Menotti.
La fuga del duca, ovviamente, portò alla sollevazione dei patrioti in tutto il territorio estense. Scrive al riguardo Pecoraro: «Il 6 febbraio un gruppo di congiurati libera i 92 prigionieri politici lasciati a Modena dal sovrano. A Reggio il 7 febbraio e a Modena il 9 si formano governi provvisori. Il 10 a Parma folle di dimostranti chiedono la Costituzione e il licenziamento del segretario di Stato […]. La rivolta si estende e dilaga da Bologna a gran parte dello Stato pontificio, alle Marche, all’Umbria».
Senza l’appoggio della Francia di Luigi Filippo, però, la rivolta esaurì in breve tempo la propria forza d’urto. Nel frattempo Ciro Menotti, prigioniero del duca a Mantova, andava inesorabilmente incontro al suo destino. Da parte del governo provvisorio di Modena furono avviati contatti con l’entourage di Francesco IV per ottenere clemenza per il prigioniero; ma tutti gli sforzi, compreso un tentativo di far evadere Menotti, risultarono vani. Questi, ricondotto nella capitale estense il 23 aprile – dopo che il 9 marzo Francesco IV era potuto rientrare trionfalmente a Palazzo ducale – venne processato e condannato alla forca insieme con il notaio Vincenzo Borelli, reo di aver firmato l’atto di decadenza del duca. La sentenza – alle origini della quale risiedeva la volontà del sovrano di colpire in modo esemplare il movimento liberale, ma anche il desiderio di cancellare con un secco colpo di spugna inconfessabili connivenze – venne eseguita la mattina del 26 maggio sul baluardo della Cittadella. I resti di Menotti, inizialmente sepolti nella zona sconsacrata dei giustiziati del cimitero di s. Cataldo, furono prelevati dalla famiglia nel 1848 e traslati nella chiesa parrocchiale di Spezzano.
Con la morte per impiccagione Menotti entrò a pieno titolo nel pantheon dei martiri del Risorgimento. Un’eco dei suoi ideali si coglie leggendo un passo tratto dal «Monitore modenese», foglio uscito nelle settimane del governo provvisorio: «Perché tardasi tanto ad operar quella Unione, che è il sospiro d’ogni petto veramente italiano? […] Non più romagnoli, non più bolognesi, non più modenesi, non più parmigiani: italiani vogliamo essere, e italiani saremo perché il vogliamo».
Luigi Malavasi Pignatti Morano