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Disobbedienza civile. Le due parole piacciono tantissimo ai fan di Gandhi, di solito riconducibili nell’area politica che, guarda caso, fino a oggi ha guidato il governo e che li respinge con forza o con quello che resta, anche ai piani bassi, dove si arriva a dire che “chi istiga alla disobbedienza civile ha altri interessi”.
Ma la misura è colma, chi decide di aprire in barba ai Dpcm, peraltro costituzionalmente illegittimi, lo fa per non chiudere per sempre, per aggrapparsi a una speranza e non appendersi a un cappio. E la cosa che lascia più perplessi non è tanto l’appello alla responsabilità, che può starci, se non fosse che non è colpa di baristi, commercianti e gestori di palestre e piscine se nessuno ha potenziato gli ospedali, le terapie intensive e i trasporti; ciò che lascia straniti è l’appello delle associazioni di categoria al rispetto delle regole.
Regole che, è sufficiente una lezione di diritto di prima ragioneria per capirlo, se fatte per Dpcm non sono tali, perché i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri sono atti amministrativi, non hanno forza di legge. E basta ricordare la Costituzione, troppo spesso sbandierata a caso, per smontarne la valenza.
Le associazioni di categoria, con questa protesta, sono state brutalmente scavalcate dai loro associati perché troppo zelanti a chiedere il tesseramento e troppo timide per contrastare azioni che, di fatto, oltre a limitare la libertà personale, limitano il diritto al lavoro, costituzionalmente garantito.
Ora che fanno appello alla responsabiltà, al rispetto delle regole, sono ridicole. Le partite Iva hanno rispettato le regole del gioco, chi doveva difenderle nelle sedi appropriate ha fallito. Chi lavora si è fatto in quattro per rispettare le regole sugli assembramenti e quanto occorreva per evitare l’aumento del contagio, ma gli è comunque stato chiesto di fermarsi.
I ristori non sono arrivati o sono stati insufficienti. Ci sono ristoratori che hanno cambiato il codice Ateco per trasformarsi in sorta di mense, per poter fare coperti almento coi lavoratori a partita Iva che sono spesso fuori per il pranzo e, soprattutto, dare da lavorare ai loro dipendenti e poter ridare lo stipendio dato che la cassa integrazione l’hanno vista col binocolo.
Strepitino pure gli amministratori locali, mentre tergiversano nelle responsabilità su case di riposo, reparti nuovi che fanno letteralmente acqua e argini che non tengono. Invitino alla calma i sindacalisti d’impresa. Chi dal 15 riaprirà, non lo farà in maniera sconsiderata: rispetteranno le regole sul distanziamento e sugli assembramenti, su questo ci potremmo mettere la mano sul fuoco. La colpa non è loro, nè dei loro avventori. La colpa è di chi ha mal gestito la situazione. E in questo, le associazioni di categoria, hanno fatto la loro parte.
Stefano Bonacorsi