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L'Africa potrebbe essere paragonata al bancomat dei Paesi ricchi

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Ma la carità a pagamento si chiama lavoro, business. Il fenomeno dell'emigrazione ai livelli attuali ha origini poco chiare


L'Africa potrebbe essere paragonata al bancomat dei Paesi ricchi
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Parliamo dell’Africa. È il Continente che custodisce le ricchezze del pianeta: oro, diamanti e rame si trovano abbondantemente  nella parte Occidentale e Australe. Il petrolio sgorga potente in tutta la fascia sahariana, ma anche lungo le coste e in Nigeria. Sì, anche nel Paese dal quale abbiamo importato la mafia più cruenta. L’Africa potrebbe essere paragonata al bancomat dei Paesi ricchi e industrializzati come gli Stati Uniti, l’Europa e oggi la Cina, dove la carta magnetica da introdurre costa poco o niente e si può prelevare quanto si vuole. Delle 54 nazioni che formano il Continente – esclusi i pochi territori ancora sotto i governi europei – 25 vincono la classifica dei Paesi più poveri della Terra. Nei secoli passati, l’Occidente scelse di controllare direttamente queste ricchezze immense e nacque il colonialismo. Ma conquistare un territorio e gestirlo è un impegno non da poco.

E così i “conquistatori” decisero diversamente: concessero la libertà a questi Stati, appoggiarono governanti senza scrupoli e a loro legati e continuarono a depredare l’Africa senza investire nulla.

Infatti, la ragione principale della povertà di gran parte degli africani è che le loro ricchezze non coinvolgono la popolazione locale nel ricavo economico dell’indotto. In questi ultimi 15 anni circa, anche le mafie internazionali hanno posato gli occhi sul Continente Nero che, oltre a diamanti, oro e petrolio, offre un’altra risorsa: le persone. A dire il vero non è una gran scoperta, considerato che lo “schiavismo” dall’Africa era già in auge al tempo dei faraoni e della Roma imperiale. Quello “moderno” è più subdolo del fenomeno che contraddistinse il passato. Oggi si ammanta di valori e finalità che possiede solo parzialmente. È uno schiavismo camuffato e “buono”.

L’intervento degli Stati Uniti e dei Paesi alleati in Afghanistan e Irak, dopo l’11 settembre 2001, e la guerra contro l’organizzazione jihadista salafita attiva in Siria e Iraq, denominata Stato Islamico, ha creato un ingente numero di morti, feriti e disperati senza tetto e risorse tra la popolazione. Il senso di colpa dell’Occidente e la fuga dalle zone di guerra da parte dei civili, ha prodotto un  fenomeno d’emigrazione verso l’Europa di proporzioni bibliche e gli “sciacalli” hanno subito fiutato l’affare.

Ricordiamo le parole di Salvatore Buzzi, numero uno della cooperativa sociale “29 Giugno” e braccio operativo dell’organizzazione, mentre si rivolgeva a Pierina Chiaravalle: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno!” La mafia romana chiamava questo modo di far soldi il “sistema Odevaine”, studiato per far arrivare denaro pubblico ai gestori amici delle coop “che si dividono il mercato“. Odevaine era l’ex vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni e capo della polizia provinciale di Roma. L’intreccio di politica e affari, fino a questo punto, si limitava ad intascare il denaro pubblico per la gestione degli emigranti, senza avere il controllo della filiera, organizzata da mani diverse.

Secondo l’analisi 2017 dell’Unhcr, i Paesi africani di provenienza dei richiedenti asilo sono la Nigeria, l’Eritrea, il Sudan, il Gambia, la Costa d’Avorio e la Somalia. Percentuali minori di rifugiati provengono dal Pakistan, dal Senegal, dal Mali, dal Ciad, dall’Egitto e proprio dai citati Afghanistan e Siria. Il numero di persone, provenienti dall’Iraq, è irrisorio. Fermo restando il dato sulla povertà diffusa in Africa, la maggioranza di queste persone fugge per ragioni economiche. Per salvare questi profughi, che hanno impiegato anche anni ad arrivare alle coste della Libia, si sono attrezzate organizzazioni umanitarie. Ma non è tutto oro ciò che luccica. Il noleggio di una nave di modesto tonnellaggio costa circa mezzo milione di dollari al mese, escluso nafta, vettovagliamenti, equipaggio e comandante.

Come si finanziano le ONG? Spesso sono sostenute da privati, aziende e fondazioni. “Medici senza frontiere”, per fare un esempio citato da Il Sole24Ore, ha chiuso il 2017 con donazioni per 57,9 milioni di euro da 292.742 finanziatori. Una bella cifra che si deve moltiplicare, in qualche misura, anche per le restanti ONG quali SeaWatch, Mission LifeLine, Sos Méditerranée, ProActiva, tra le maggiori, e una costellazione di altre spuntate come funghi. Per avere un’idea di quanto costerebbe dare un’istruzione, assistenza sanitaria e, naturalmente, cibo ad un bambino africano, la cifra stimata è di 6/9 dollari al giorno. Con i milioni che circolano vorticosamente in un anno per gestire l’immigrazione, molti Stati avrebbero già potuto avviarsi verso un futuro diverso e migliore. Tanta generosità nel salvare vite umane desta qualche sospetto. Nella miriade di dichiarazioni sull’argomento, una ha fatto sobbalzare più di uno spettatore. In modo particolare il giornalista Toni Capuozzo su La7. Era il 12 luglio 2018 quando Gino Strada raccontò perché “Emergency” non era più presente nel Mediterraneo a soccorrere i migranti. «Non abbiamo i soldi per farlo» spiegò il medico. «Noi lavoravamo su una barca che era di proprietà di Moas, contribuivamo con il nostro personale sanitario che pagavamo noi: delle spese logistiche noi pagavamo 150mila euro al mese. Dopodichè – ha svelato – ci hanno chiesto di dare di più, 180mila o 230mila. Noi abbiamo discusso tra di noi e abbiamo accettato. Poi ci hanno detto: vogliamo che sbarchiate domani perché la Croce Rossa ci dà 400mila euro e noi che dovevamo fare? È come quando il padrone di casa ti dà lo sfratto». Quindi i ragazzi con la tuta bianca, che danno un alone nobile e romantico alla causa, si pagano vitto e alloggio e contribuiscono alle spese di viaggio di quelli che “nobilmente” hanno messo a disposizione la nave. A questo proposito è bene ricordare che la carità a pagamento si chiama lavoro, business. Il fenomeno dell’emigrazione ai livelli attuali ha origini poco chiare. Da noi non arrivano persone con braccia scheletrite e ventre gonfio, quelli che vediamo nei documentari o nelle pubblicità umanitarie.

Da noi arriva chi può pagarsi il viaggio, che costa qualche migliaio di dollari. Basta scambiare qualche parola con un “vu cumprà” delle prime ondate per sapere dei “reclutatori”. Sì, persone che circolano nei villaggi e con il cellulare mostrano fotografie di amici e parenti già arrivati in Europa, ritratti ben vestiti, con orologi luccicanti ai polsi, davanti a villette a schiera e, soprattutto, sorridenti, felici. Ma non esistono solo i “reclutatori”: ci sono anche veri e propri mercanti di schiavi, come ai tempi di John Newton, ex capitano di navi negriere. Tornando ai primi, tutti possono pagare il passaggio sui barconi? Assolutamente no e qui si aggiunge un secondo elemento. Reclutatori e scafisti assicurano che il problema non esiste: si dovrà lavorare per qualche anno gratuitamente, ma vitto e alloggio è assicurato. Non vi siete mai chiesti quale logica esista per rinchiudere in catapecchie pulciose, picchiare e violentare chi ha pagato per il passaggio sui barconi? Semplice: costoro, che sono la maggioranza, non avevano il denaro e sono considerati carne umana da sfruttare. Sappiamo bene quali sono questi lavori: prostituzione, spaccio di droga e, nel migliore dei casi, vendita di mercanzia contraffatta e raccolta nei campi per 10/12 ore il giorno e una paga miserevole in nero, naturalmente.

Ma non basta. Non c’è mai limite alla malvagità umana. È di questi giorni la conferma di un sospetto che molti avevano da lungo tempo: il traffico d’organi. Un recente articolo sull’argomento del Gazzettino di Venezia, così inizia parlando di una indagine FBI: “Il mattatoio di ragazzi e ragazze importati dalla Nigeria, è nella Costiera Domizia, terra di camorra e mafia africana.” Per taluni, l’accoglienza pare lo strumento più efficace e rapido per alleviare questa tragedia, ma è bene essere consapevoli chi stiamo finanziando e chi gettiamo in una disperazione forse ancora più profonda, in molti casi. L’unica e vera soluzione è chiudere i confini: nessuna partenza, nessun morto o schiavo; favorire con ogni mezzo l’integrazione e il progettare un futuro diverso per coloro che sono già nel nostro Paese, compatibilmente con le nostre possibilità, senza produrre ingiustizie e rivolgendoci a chi veramente è fuggito dalla guerra, dalla carestia e dalle pestilenze. Ma soprattutto aiutare l’Africa con uomini, mezzi e finanziamenti, in forma diretta, così da scavalcare la corruzione dilagante. Ciò non converrà a chi ha tutto l’interesse a mantenere un Continente analfabeta e senza strutture e non parteciperà ad una riedizione del piano Marshall; farà di tutto per contestarlo e bloccarlo. Dimostriamo la nostra differenza: adottiamo un Paese costruendo strade, scuole, ospedali. Poco alla volta, con i fondi che riusciremo a risparmiare da un’accoglienza non risolutiva e probabilmente dannosa. Magari daremo il via ad un circolo virtuoso, con buona pace di qualche alleato che andrà a rubare altrove il futuro.

Massimo Carpegna    

 

 


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