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Ma è possibile essere patrioti senza essere nazionalisti? Il trilemma

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Articolata analisi di un giovane pavullese: 'La diffusione dei social media e l'accesso alle fonti online dà la sensazione di conoscere ma di non controllare'


Ma è possibile essere patrioti senza essere nazionalisti? Il trilemma
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Sono uno studente di 24 anni, attualmente vivo a Vienna dove sto per concludere la laurea magistrale in economia e politiche socio ecologiche (Socio Ecological Economics and Politics). Da tempo rifletto sull’attualità politico-economica e ho deciso di scrivere questa riflessione per necessità non riuscendo ad occuparmene esclusivamente con l’occhio “scientifico” e distaccato di chi è consapevole di assistere ad un momento chiave. Se ci si percepisce come parte integrante della società non si può stare alla finestra ad osservare tensioni sociali e problematiche ecologiche emergere con sempre più chiarezza fino a rompere equilibri, prassi e famiglie politiche che si credevano consolidati. Con tutti i limiti del caso, in parte soggettivi, in parte dovuti alla lunghezza del testo provo quindi a fornire una mia analisi sintetica del momento attuale insieme a possibili sviluppi, forse speranze utopiche, ma, se non altro, come cercherò di mostrare, fondate su “solide necessità”.

Nell’attuale clima politico-economico, per molti versi inedito, sembra che molti nodi irrisolti del tardo capitalismo stiano venendo a galla. Il voto democratico, che nel mondo sta portando al verificarsi di scenari impensabili anche solo fino a pochi anni fa, indica un generalizzato rifiuto verso il potere costituito. Le due narrative che sembrano confrontarsi, perlomeno in Europa e negli Stati Uniti, sono da una parte il “business as usual” che vede sempre più spesso conservatori, liberali e socialdemocratici convergere a difesa dell’equilibrio esistente caratterizzato dal dominio del neoclassicismo sull’economia e dell’economia sulla politica; dall’altra, in forte crescita, una risposta “reazionaria” fondata su un misto di protezionismo e nazionalismo.

In questo contesto la scelta finora pare obbligata tra mainstream neoliberista pro-iperglobalizzazione a beneficio ultimo del capitale finanziario o nazionalismo regressivo e aggressivo-imperialista.

Occorre invece sfuggire a questa trappola chiedendosi se la riscoperta della dimensione dello stato nazionale, conseguente al crollo della fiducia negli organismi sovranazionali privi di (diretta) legittimazione democratica, possa svolgere una funzione emancipativa, sconfessando la narrazione dominante che invece lo dipinge come intrinsecamente regressivo. Se si, a quali condizioni? In questo senso è possibile, e nel caso utile, nel 2018 essere patrioti senza essere nazionalisti? Penso che questi siano tra gli interrogativi più importanti che caratterizzano questo tempo e alle quali urge provare a dare risposta.

Nel corso di un seminario promosso dall’Istituto Alti Studi Strtegici e Politici e tenutosi a Milano a fine ottobre, l’onorevole Fassina, che ha da poco fondato l’associazione “Patria e Costituzione”, ha definito la fase attuale un 'momento Polany' nel quale “il dominio del mercato sulla politica ha raggiunto un punto critico nelle economie mature” nelle quali “l’ordine socio-economico sembra non essere più democraticamente sostenibile”. Dany Rodrik, professore statunitense, già nel 2011 mostrava un convinzione analoga coniando l’immagine del “trilemma” per indicare che tra iperglobalizzazione, sovranità nazionale e democrazia solo due possono coesistere contemporaneamente mentre una ne fa necessariamente le spese. La situazione attuale è caratterizzata da una grande tensione: da un lato l’iperglobalizzazione, forte, estesa e sempre più pervasiva, dall’altro stati nazionali ancora presenti ma costretti a subire continui attacchi diretti a svuotarne la sovranità nel tentativo di circoscriverne i margini di manovra e di renderli strumenti al servizio della “legge del mercato”. La democrazia dal canto suo non ci sta ad essere accantonata e anzi, come il significato dei risultati delle elezioni degli stati nazionali dimostra, cerca di porre un freno all’iperglobalizzazione. A prescindere da valutazioni di merito sui singoli esiti, è in quest’ottica che si possono leggere molti dei risultati elettorali recenti in Europa e negli Stati Uniti.

Le ragioni per le quali questo stia accadendo ora sono molte e complesse, forse non ancora del tutto conosciute e comunque la loro disamina esula dagli scopi di questo breve articolo. Qui mi limito a segnalare un fattore collaterale che ritengo non sia adeguatamente considerato: la diffusione dei social media e l'accesso alle fonti di informazione online. Queste, aumentando le opportunità che le persone comuni hanno di contatto (superficiale) con le notizie, la politica e la complessità, ampliano il dominio all’interno del quale l’individuo percepisce la propria esistenza, passato in pochi anni dal  proprio paese al mondo intero. A questo, però, non ha corrisposto un aumento in parallelo della propria sfera di influenza percepita. Ciò, a mio avviso, può generare o aumentare la sensazione di 'conoscere ma non controllare', sensazione alquanto spiacevole per la natura umana e che potrebbe contribuire all’aumento nella ricerca di risposte facili a problemi complessi ma presentati in maniera semplicistica.

Tuttavia, qualunque siano le ragioni, il risultato è un diffuso scontento che si traduce in una crescente domanda di protezione sociale e identitaria e nella volontà di (ri)ottenere, perlomeno apparentemente, il controllo sul proprio futuro attraverso la politica. Ad oggi la risposta che sembra prevalere in tutto il mondo è di tipo regressivo/reazionario: a chi chiede protezione offre prevalentemente politiche aggressive che non toccano la struttura e che mettono poveri contro più poveri (proletari/lavoratori contro migranti, minoranze in generale) e interpreta la richiesta di “riacquisire il controllo” tramite una riaffermazione dello stato che sembra la trasposizione su scala nazionale dell’iperindividualismo che caratterizza (gran parte) degli individui, opponendosi alla globalizzazione non “con” ma “contro” gli altri, sul modello, insomma, dell’ “America first”.
Se in generale questa sembra essere la tendenza attualmente in corso, ciò non significa che il Movimento 5 Stelle, Orban, l’Fpoe, Alternative fur Deuchland, il Front National, Trump, Modri e Bolsonaro siano la stessa cosa. Questo modo di generalizzare – che, nella migliore delle ipotesi, deriva da pigrizia, ignoranza o, peggio, da una miope ed estrema difesa di interessi di parte - si combina spesso pericolosamente con la tendenza a dare la colpa alla “gente' (o al '60%') la quale, abbandonati i partiti tradizionali, si rivolge a quelli definiti con sprezzo “populisti” venendo dipinta come qualunquista, xenofoba, razzista e sessista. Questo argomentare -oltre ad essere pericoloso offrendo il fianco a ragionamenti che di democratico hanno ben poco e che poggiano sull’idea che la democrazia sia poco più che un astratto ideale e che si riveli inadeguata al governo della complessità è
dannoso poiché catturando l’attenzione mediatico-politica sterilizza il dibattito impedendo lo sviluppo di una riflessione quanto più ampia possibile sulla situazione. Quest’ultima invece sarebbe oggi urgente e necessaria affinché questo 'momento Polany' possa essere prima compreso e poi trasformarsi in un esito emancipativo.

Per questo trovo molto deludente che continuino a prevalere semplificazioni alquanto grossolane secondo le quali Trump è paragonabile a Bolsonaro che è nazionalista come Kurz che è fascista come Orban il quale, a sua volta, è la stessa cosa del governo italiano attuale definito con spregio 'populista'. Quest’ultimo, invece, è un 'animale” complesso e contraddittorio fatto di sensibilità e istanze molto diverse raccolte dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega. Questi hanno formato un governo che vede all’opposizione i partiti tradizionali (neoliberisti di centrosinistra e di centrodestra) e il cui consenso popolare è finora direttamente proporzionale al fuoco di fila delle critiche, che arrivano incessantemente da “bocconiani”, istituzioni UE e dai 'mercati'. Proprio in quest’ultimi, per punire scelte politiche tra le più le più redistributive e neokeynesiane degli ultimi 25 anni, si registra un disinvestimento dai titoli di stato italiani (generando così il famigerato aumento dello 'spread') accompagnato dalle minacce di declassamento provenienti dalle agenzie di rating. Quanto appena descritto si configura come una manifestazione plastica del trilemma: il potere del mercato (iperglobalizzato a trazione capitalistico-finanziaria) tenta di limitare la democrazia circoscrivendo di fatto l’esercizio della sovranità nazionale a scelte politiche che non provochino aumenti dello spread e/o svalutazioni da parte delle agenzie di rating e cioè a ciò che non sia sgradito “ai mercati”.

Emblematica in questo senso la frase che avrebbe pronunciato lo scorso maggio il commissario europeo al bilancio Oettinger: “i mercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto”. In questo quadro, il fatto che la politica e il voto abbiano ancora un significato dovrebbe essere considerato un grande valore. Significa che le élites capitalistico-finanziarie (“i mercati”) non sono riuscite ancora ad affermare definitivamente la loro ideologia neoliberista. La capacità del voto di scatenare reazioni da parte dei mercati, seppur deleteria per le casse dello stato, dimostra che la tecnocrazia non ha ancora prevalso sulla democrazia. L’opera di svuotamento della politica della sua  capacità di determinare le regole del gioco non è ancora completata sebbene coloro i quali beneficiano dall’idea che quella neoclassica sia la sola economia e che quest’ultima prevalga sulla politica spingano fortemente a favore della globalizzazione economica (libertà di circolazione) e culturale (cosmopolitismo e dissoluzione identità nazionali) e, più in generale su tutto ciò che possa indebolire, svuotare, legare, delegittimare lo stato nazionale come luogo di determinazione politico-democratica del reale. In questa, che si può definire come una vera e propria lotta di classe nella quale i dominanti sono pochissimi e potentissimi e i dominati aumentano di numero e di categorie sociali, i primi hanno, purtroppo, trovato un alleato nei centro-sinistra, il quale con Clinton e Blair ha completato quella virata verso “il mercato assoluto” che era iniziata ai tempi di Raegan e Tatcher e che accelerò dopo la caduta del muro di Berlino. Gran parte degli elettori di sinistra, cresciuti con l’idea dell’internazionalizzazione e del superamento degli aspetti regressivo-nazionalisti, ha abbracciato una svolta cosmopolita che però non era quella della rivoluzione socialista, ma del suo opposto, quella neoliberista ammantata di neoliberalismo. Pertanto sembra che i socialdemocratici-progressisti stiano combattendo la lotta di classe, ma dalla parte del 'nemico', avendo abbracciato un’ideologia funzionale al capitalismo finanziario. Oggi le sinistre social-democratiche che si limitano a stigmatizzare il populismo rivelano di essere demofobiche. Esse scambiano (consapevolmente?) la giusta critica all’utilizzo regressivo dello strumento stato-nazione con l’assenza di proposte alternative o addirittura critiche dirette allo strumento stesso. Infatti, la dimensione politicogovernativa dello 'stato-nazione', fino a prova contraria l’unica a diretta legittimazione democratica, viene dipinta come intrinsecamente regressiva e nazionalista e si agita, più o meno a sproposito a seconda dei casi, lo spettro del fascismo incombente come esito del voto popolare definito razzista e xenofobo. Le posizioni delle formazioni di centro-sinistra di governo finiscono così per saldarsi di atto con quelle di chi vuole meno governo e più governance, meno stato (sociale) e più mercato e meno politica e più “economia”. Seguitando a fare ciò, invece che preoccuparsi di capire le ragioni profonde della disaffezione e dello scontento per poi interpretarle in chiave politico-emancipativa, l’enorme richiesta di cambiamento che caratterizza questo “momento Polany' continuerà ad essere interpretata solo da offerte politiche reazionarie che tendono pericolosamente e in modo regressivo - “tutto cambi perché nulla cambi”- a mantenere orizzontale (ultimi contro ultimi degli ultimi) una richiesta di cambiamento democratico che invece dovrebbe essere impiegata sul piano verticale (politica per tutti contro politica per pochi/élites capitalistico-finanziarie), al fine di produrre cambiamento strutturale.

Il compito è difficile ma urgente, e consiste nell’immaginare un'alternativa all'apparente dicotomia tra la deglobalizzazione in chiave reazionaria nazionalista e il cosmopolitismo che definito con le parole profetiche di Togliatti: 'è la caratteristica ideologia degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trust internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei produttori di armi: questi sono i patrioti del loro portafoglio, che non solo vendono, ma si vendono volentieri al miglior offerente tra gli imperialisti stranieri' (Togliatti, Rinascita, anno II, nn. 7-8, 1945). Questa 'terza via', perlomeno in Italia, potrebbe basarsi sul 'patriottismo costituzionale': stati nazionali rafforzati riferendosi alla Costituzione e in un’ottica cooperativa fondata sul mutuo riconoscimento nei confronti degli altri. Lo stato democratico nazionale, dunque, inteso come luogo fisico e politico nel quale, attraverso la cittadinanza attiva, il popolo esercita la sovranità che gli appartiene e che si esplicita nella possibilità di progettare il proprio futuro utilizzando l’economia come strumento a servizio della politica (e non viceversa) e governando “il mercato” e quindi gli interessi privati (specie quelli di chi al suo interno ha più potere) secondo l’interesse generale democraticamente stabilito.

Il rifarsi alla Costituzione, almeno nel caso italiano, rappresenta la migliore garanzia contro i potenziali aspetti nazionalistico-regressivi essendo questa il frutto di una straordinaria cooperazione tra tutte le forze (dai cattolici ai comunisti passando per socialisti e liberali) che insieme avevano combattuto il fascismo, quello vero, e che, subito dopo la seconda guerra mondiale avevano ben chiari il rischi e pericoli del nazionalismo.
L’ottica cooperativa, infine, è l’unica con la quale gli stati nazionali, una volta riacquisita dignità, potranno interpretare la propria ritrovata centralità in un tempo, il nostro, caratterizzato da enormi sfide, a partire dalle questioni ecologiche e sociali, la cui dimensione è per natura sovranazionale e che quindi non possono essere affrontate dai singoli stati. Allo stesso tempo progetti come quello europeo, definito da Fassina come “geneticamente predisposto ad affermare il dominio dell’economia sulla politica”, se vorranno avere un avvenire dovranno essere rifondati su presupposti diversi. Come spesso ricordato dal professor Sapelli, uno dei più maggiori economisti e storici italiani viventi, esso infatti poggia sul funzionalismo alla Jean Monnet che consiste nel sottrarre sovranità “senza che gli stati nazionali se ne accorgano”. La dimensione statuale a diretta legittimazione democratica, invece dovrà fungere da ineludibile punto di partenza per qualsivoglia limitazione o cessione di sovranità rivolta ad affrontare problematiche che travalicano i confini nazionali. In questo senso non devono spaventare le differenze sociali, culturali e di impostazione economica tra diversi stati, anzi, oltre alla loro ricchezza intrinseca, in un ottica di mutuo riconoscimento esse possono rivelarsi di estrema importanza nell’affrontare le sfide che attendono l’umanità per le quali risulterà fondamentale poter contare su una ricca “biodiversità culturale e di approcci” che viene invece messa a dura prova dalla globalizzazione e dal consumismo uniformanti.

Un'altra grande sfida per una proposta politica emancipativa riguarda la necessità di affrontare le questioni sociali congiuntamente alla crisi ecologica riconoscendo il loro intrinseco legame e le loro comuni radici affondate nella logica dello sfruttamento del prossimo e dell’ecosistema come incessantemente ricorda Papa Francesco. Ciò implica che i rimedi keynesiani 'vecchia scuola' per più crescita eventualmente meglio redistribuita non sono ecologicamente sostenibili tanto quanto, non lo sono socialmente misure deflattive come l'austerità che riducono il potere d’acquisto dei più deboli e mortificano il mercato interno. Si rende quindi necessaria una riflessione culturale profonda che riguardi l’ontologia (sistema economico da intendersi come sottosistema di quello socio-culturale a sua volta sottoinsieme dell’ecosistema) e la teleologia (scopi, fini e obiettivi) e che si apra alla società. A questa spetterà infatti la ridefinizione (in maniera quanto più partecipata possibile) di alcuni tra i capisaldi della convivenza umana su questo pianeta tenendo conto del legame inscindibile tra sostenibilità sociale ed ambientale: tra gli altri, il ruolo della disciplina economica, l’idea di progresso e il concetto di benessere. Sul piano internazionale questa discussione non potrà che beneficiare dalla “biodiversità culturale”, dallo scambio di idee e dalla pluralità di voci (specialmente quelle meno ascoltate fino ad oggi). Potrà l’ONU, organizzazione sovranazionale fondata proprio sul riconoscimento degli stati nazionali, rilanciarsi per fornire la cornice all’interno del quale questo dialogo avvenga e poi prenda forma concretizzandosi in accordi politici?

L'urgenza e la complessità di queste sfide, combinate con il grande potenziale di trasformazione che caratterizza questo momento politico, penso ci debba spronare ad andare oltre la nostra “zona di comfort”. Se siamo convinti della necessità di una trasformazione in senso socio-ecologico della società e allo stesso tempo crediamo che tale cambiamento debba essere guidato da processi partecipativi e democratici, allora questo è il momento di provare instancabilmente a costruire ponti per capire e comunicare con le persone. Ciò richiede un grande sforzo da parte di tutte le energie critiche presenti nella società, per superare stereotipi e vecchie contrapposizioni che oggi, persa pressoché ogni valenza contenutistica, finiscono per catalizzare attenzioni ed energie sulla forma impedendo che queste si concentrino sulla sostanza laddove invece, come mostrato, ce ne sarebbe quanto mai bisogno.

Mi auguro che, le sinistre socialdemocratiche cambino presto rotta e abbiano la forza di rimettersi profondamente in discussione iniziando da alcuni di quelli che paiono essere diventati capisaldi del loro pantheon valoriale: l’adozione della prospettiva economico-politica neoliberista, gli aspetti nichilistici del materialismo e del consumo, la fede incondizionata nel progresso (specie in quello quantitativo), il processo di chiusura nella sfera individuale del concetto di libertà e dei diritti con il  conseguente focus sui diritti civili e abbandono delle battaglie per quelli sociali, l’accettazione e conseguente descrizione della globalizzazione come processo neutro e ineluttabile. Spero che sia possibile (ri)costruire un senso di appartenenza a una comunità (dalla cellula prepolitica della famiglia fino a quella costituita dalla famiglia umana), che ritengo essere la condizione preliminare per sfuggire da un lato dal nichilismo dell’individuo depoliticizzato consumatore (più o meno) gaudente e dall’altro dall’aggressività dell’individuo iper-egocentrico assetato di politica intesa come strumento di affermazione del proprio dominio/interesse su quello del prossimo. Solo salvandoci da questi due estremi la trasformazione socio-ecologica di cui la società ha un grande bisogno potrà prendere forma attraverso un percorso partecipato e democratico.

Matteo Lipparini

Redazione Pressa
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La Pressa è un quotidiano on-line indipendente fondato da Cinzia Franchini, Gianni Galeotti e Giuseppe Leonelli. Propone approfondimenti, inchieste e commenti sulla situazione politica, ..   Continua >>


 
 
 
 

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