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La volontà di pacificazione nazionale post-Covid è auspicata in questi giorni da più parti ed è, di fatto, sostenuta dal nuovo governo.
Come sempre, il mondo accademico non perde occasione per piegarsi al (mutato) vento che tira e lo fa utilizzando gli strumenti che gli sono propri.
Ecco dunque annunciarsi in pompa magna il primo convegno universitario in grado di promuovere un approccio pluralista alla gestione del Covid, organizzato dal Politecnico di Torino per il 21-25 novembre 2022 (dal titolo soporifero: “Poli-Covid-22. Salute, scienza e società alla prova della pandemia”), che in realtà altro non è che un convegno-trappola, uno specchietto per le allodole, una cortina di fumo dietro la quale si cela la volontà citata in apertura.
Un convegno sul Covid, soprattutto dopo le ammissioni con cui Pfizer ha alzato il velo sulla montagna di menzogne poste a fondamento della cosiddetta campagna vaccinale e dell’abietto strumento di controllo sociale denominato Green Pass, avrebbe dovuto limitarsi a fare una cosa sola: condannare senza mezzi termini una sperimentazione di massa che ha calpestato impunemente ogni garanzia di natura bioetica e biogiuridica, dal principio di precauzione a quello di consenso informato; che ha stravolto i capisaldi normativi della sperimentazione clinica di medicinale sul presupposto che la “velocità della scienza” richieda e giustifichi l’immissione in commercio, senza inutili esitazioni, di farmaci dagli effetti totalmente sconosciuti; che ha presentato come innovativi e vincenti approcci farmacologici rischiosi e inquietanti perché fondati sulla modificazione del DNA umano tramite l’impiego dell’RNA messaggero; che ha svilito diritti e libertà fondamentali al rango di graziose concessioni governative; e che ha rafforzato la deriva transumanista e neomalthusiana promossa dalle forze mercantiliste e globaliste che prosperano all’ombra dell’Unione europea.
Invece di prendere aperta posizione contro la grande truffa del Covid e stigmatizzare le dinamiche e gli attori che si muovono dietro di essa, il convegno di Torino, in nome di un malinteso senso di pluralismo, promuove con convinzione quasi toccante il confronto tra le evidenze scientifiche che hanno promosso o avallato la scellerata campagna vaccinale e quelle che hanno messo in luce rischi, effetti avversi e danni collegati e conseguenti all’immissione in commercio del cosiddetto vaccino.
Ora, se anche per pura ipotesi le evidenze scientifiche diverse da quelle ufficiali bucassero per un momento il muro d’omertà costruito dai media mainstream e se anche da un confronto siffatto dovesse mai uscire una nuova e diversa sensibilità sociale sull’argomento, il problema di fondo resterebbe comunque eluso e irrisolto: l’obbligo vaccinale e tutto ciò che ruota intorno a esso – comprese le politiche divisive degli italiani avallate più o meno consapevolmente dalle più alte cariche istituzionali dello Stato – non è e non è mai stato una problematica di natura scientifica, ma solo e soltanto una emergenza democratica e civile.
Non rendersi conto di questa lampante verità vuol dire, di fatto, finire per fare il gioco di chi ha pianificato, organizzato e gestito la più grave situazione di tensione sociale dall’avvento del fascismo in poi.
Stupisce, quindi, che tanti docenti ed esperti che in questi mesi si sono esposti pubblicamente contro la gestione del Covid abbiano accettato con tanto entusiasmo di prestarsi a fare da foglia di fico a un convegno così singolarmente concepito. Mancanza di visione strategica? Vanità personale? Routine accademica? Esigenze di rendicontazione scientifica?
Chissà. Eppure sono stati avvertiti a più riprese. Uno di noi due (Luca Marini), infatti, è stato coinvolto dal Politecnico di Torino nell’organizzazione del convegno fin dalle sue fasi iniziali – in qualità di componente del consiglio scientifico – e, a partire dalla riunione di insediamento di quest’ultimo (agosto 2022), non ha perso occasione per avvertire gli altri colleghi delle correnti “filo-vacciniste” che agitavano il consiglio medesimo e che hanno gradualmente favorito il coinvolgimento nel convegno dei rappresentanti di quegli organismi il cui operato, durante la cosiddetta pandemia, è stato quanto meno controverso: è ovvio il riferimento al Comitato Tecnico Scientifico.
E se anche i ripetuti warning lanciati nel corso dei lavori preparatori fossero passati inosservati, avrebbero forse dovuto destare maggiore attenzione le dimissioni che egli si è affrettato a presentare dopo l’esplicita censura di alcune proposte operative, giudicate eccessivamente garantiste dei diritti e delle libertà fondamentali perché confliggenti con l’auspicato “approccio win-win”. Ma, del resto, sperare nella concreta solidarietà di colleghi la cui visibilità (e autorevolezza) è stata tutto sommato rafforzata dalle dimissioni in questione è come sperare che i viro-star ammettano pubblicamente di essersi sbagliati sulla bontà dei cosiddetti vaccini e chiedano scusa agli italiani, magari in diretta televisiva. Ciò che in fondo non fa che chiarire la portata del pluralismo perseguito dal convegno torinese e la coerenza di certe cooptazioni avvenute nell’ambito del suo consiglio scientifico.
L’altro di noi due (Francesco Benozzo), dopo essere stato invitato a parlare al convegno della gestione pandemica nel mondo universitario, ha proposto coerentemente con la propria posizione (essendo uno dei due docenti sospesi su 70.000 universitari) di parlare della propria situazione personale, del maltrattamento subito, della perdita del lavoro, del mobbing a cui è ancora sottoposto: gli è stato risposto che sarebbe stato preferibile parlare di situazioni generali, più funzionali al dibattito che gli organizzatori avevano pianificato. Ha dovuto pertanto rinunciare all’intervento, vista l’intromissione e la conseguente censura – del tutto irrituale per un convegno scientifico a cui si è stati invitati – su ciò che avrebbe detto.
C’è comunque da ammettere che, probabilmente, i colleghi rimasti in gioco hanno dimostrato di avere maggiore fiuto rispetto a chi scrive, visto che la parola d’ordine ormai imperante nell’Italia post-Covid è “pacificazione nazionale”. Una pacificazione che, scoraggiando o impedendo inchieste e azioni giudiziarie (se non di facciata, come quella promossa a livello governativo), non farebbe altro che riportare in auge l’italico “chi ha avuto ha avuto” e far calare definitivamente la cortina dell’omertà e dell’impunità sui crimini e i misfatti commessi, ancora una volta, in nome della scienza.
Una pacificazione che, sia detto per inciso, gli aedi più irriducibili della narrazione pandemica si ostinano ad avversare, come dimostrano le dichiarazioni rese in questi giorni da presentatori, giornalisti, dirigenti d’azienda e sanitari, amministratori pubblici e privati, medici, politici, attrici e altre macchiette da salotto televisivo (pagati con i soldi di tutti i contribuenti, vaccinati o non vaccinati), che auspicano “spillette di identificazione” e “campi di rieducazione” per i medici “no-vax”; o di chi “rivendica il diritto di non entrare in contatto con chi non si è vaccinato”; o, ancora, le proposte di legge regionale che, in barba alle evidenze più palesi, si ostinano a mantenere o addirittura a reintrodurre obblighi vaccinali, mascherine, Green Pass e altre patetiche restrizioni.
Una pacificazione funzionale all’esigenza di mantenere celate, agli occhi del vasto pubblico, le relazioni organiche e funzionali tra le élite finanziarie transnazionali, da una parte, e i circuiti scientifici, accademici, tecnologici, produttivi, industriali, commerciali, culturali, mediatici e politici, dall’altra.
Una pacificazione in grado di favorire, se accettata acriticamente anche dai rappresentanti del pensiero critico, il consolidamento e l’estensione dei “metodi Covid” alle nuove emergenze in atto, dalla guerra in Ucraina alla crisi energetica a quella climatica.
Va bene che l’Italia è il Paese dei voltagabbana, dei 25 luglio permanenti, delle inani commissioni di epurazione, delle amnistie in grado di trasformare in un sol colpo tutti i gerarchi fascisti in pacifici democristiani e tutti i GUF universitari in convinti intellettuali di sinistra, degli “armadi della vergogna” girati contro il muro degli scantinati ministeriali per occultare crimini di guerra e altre mostruosità.
Ma la pacificazione nazionale post-Covid, no. Checché ne dica il nuovo governo in carica (e sarebbe curioso sapere cosa ne pensano i suoi elettori), non può esserci pacificazione nazionale, né può esserci perdono, per chi ha promosso o avallato affermazioni come:
- Non ti vaccini, ti ammali, muori (M. Draghi);
- Escludiamo chi non si vaccina dalla vita civile (S. Feltri);
- Penso che lo Stato prima o poi dovrà prendere per il collo alcune persone per farle vaccinare (L. Annunziata);
- I rider devono sputare nel loro cibo (D. Parenzo);
- Serve Bava Beccaris, vanno sfamati col piombo (G. Cazzola);
- Prego Dio affinché i non vaccinati si infettino tra loro e muoiano velocemente (G. Spano).
Non può esserci pacificazione, né perdono, per chi ha concepito, proposto e gestito strategie e strumenti abietti come la “tachipirina e vigile attesa”, l’obbligo vaccinale e il Green Pass.
E il convegno di Torino, con il suo pluralismo cerchiobottista, dovrà rendere conto anche di questo.
Ci auguriamo che tra il 21 e il 25 novembre 2022 qualcuno tra i partecipanti al convegno trovi il coraggio per chiedere scusa a tutti gli italiani per il male che è stato fatto loro: ciò che comunque non costituirà una esimente delle responsabilità civili e penali che – è il nostro auspicio – presto o tardi saranno accertate in sede internazionale.
Francesco Benozzo, Università degli Studi di Bologna “Alma Mater Studiorum”
Luca Marini, Sapienza Università di Roma