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Matteo Salvini ha torto. Non è questione di merito. Ma di metodo. Se non di stile.
Matteo Salvini ricopriva ieri e ricopre oggi posizioni apicali a livello organigrammatico statale, era Ministro dell’interno ieri; è Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, oggi .
Non potendo, per questo solo, definire «vergognosa» un’ordinanza pubblicata dalla Corte di cassazione civile.
Nemmeno laddove si tratti di commentare l’ordinanza, in sé politicamente censurabile, a mio parere, con la quale le sezioni unite della Corte di cassazione civile hanno cassato la sentenza della Corte d’appello di Roma avente ad oggetto la domanda di condanna del Governo italiano a risarcire i danni non patrimoniali patiti dai migranti in conseguenza del noto affaire ‘Nave Diciotti’ auspicando che a ‘pagare’ siano i giudici siccome particolarmente amanti dei clandestini.
A) perché, per quanto possa ‘suonare’ politicamente non condivisibile, l’anzidetta ordinanza rappresenta pur sempre una decisione giurisdizionale, in relazione alla quale nessuno, men che meno un Ministro della Repubblica italiana, nel passare dalla teoria alla pratica, deve poter mai mettere in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
B) perché, comunque e come correttamente posto in luce dal primo presidente della Corte di cassazione, se è certamente vero che tutte le decisioni, ivi comprese quelle della Corte di cassazione civile, possono «essere [fatte] oggetto di critica», non possono mai essere accettati «insulti che mett[a]no in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto».
A differenza di Matteo Salvini, dunque, Margherita Cassano ha ragione. Ma ha anche torto.
Ha ragione nel metodo. Ma ha torto nel merito.Perché, contrariamente a quanto implicitamente affermato dal laconico comunicato stampa del primo presidente della Corte di cassazione, la magistratura non è un potere dello Stato.
La magistratura, afferma l’art. 104 Cost., è un ordine. Autonomo e indipendente dagli altri poteri dello Stato.
Sì. Ma è pur sempre un ordine. Non un potere dello Stato.
La magistratura, correttamente ragionando, non può essere un potere dello Stato.
Perché, a differenza di quanto tradizionalmente teorizzato da Montesquieu, oggi più nessuno dubita del fatto che, per poter esercitare l’imperium statale, per poter essere, cioè, un potere dello Stato, si debba essere eletti dal popolo sovrano. Cosa, questa, che i magistrati non sono.
Per quanto la stessa magistratura associata tenda a negarlo anche pubblicamente, affermando che, di fatto, la magistratura sarebbe, a sua volta, un potere dello Stato, infatti, è certamente vero che i giudici si limitino ad applicare la legge ‘in nome del popolo italiano’. È certamente vero, cioè, che gli stessi curino sì una fondamentale attività, ma pur sempre un’attività loro delegata dal popolo italiano. Domanda: è grave che, ancora oggi, la magistratura, in primis quella associata, punti a convincere i cittadini del fatto che, di fatto, anche la magistratura sarebbe, a sua volta, un potere dello Stato? A mio parere, sì. È grave.
Ma è cosa che, a ben guardare, rappresenta semplicemente il frutto avvelenato dell’involuzione anche culturale che la paurosa politica della triste stagione 1992-1993 ha inteso accettare allorquando, nell’incapacità di riformare se stessa dall’interno, ha inteso fare sì che fosse la magistratura a curare ‘per procura’ la ripartenza valoriale di questo Paese.
Senza comprendere – grave responsabilità politica, questa – che appaltare a giudici e pubblici ministeri la ripartenza valoriale del Paese avrebbe ineluttabilmente condotto gli stessi a fare scelte valoriali.
Che, lì giunti, quella paurosa politica avrebbe solo potuto sdoganare nel tempo. Perdendo con ciò il joystick politico.
Perché fare scelte valoriali significa fare politica. Questo, a mio parere, è il grave problema istituzionale che quella paurosa politica, illo tempore, non sembrerebbe aver messo correttamente a fuoco.
Avere chiesto alla magistratura di intervenire in sua vece sul piano valoriale, infatti, a conti fatti, è esattamente ciò che, negli anni, ha condotto giudici e pubblici ministeri a fare sempre più politica.
I giudici, attraverso le sentenze cosiddette creative, vale a dire attraverso sentenze scritte, non per applicare la legge, bensì per scrivere nuove leggi per via giurisprudenziale.
I pubblici ministeri, attraverso il parlare direttamente con l’opinione pubblica, by-passando con ciò l’intermediazione delle sentenze, posto che e(ra) attraverso le stesse e solo attraverso le stesse che la magistratura tradizionalmente parlava con l’opinione pubblica.
Se quanto precede è corretto, però, ferma la complessità di questioni certamente complesse, parrebbe davvero che a cogliere nel segno sia stata Giorgia Meloni all’indomani dell’affaire ‘Governo-Al-Masri’: nessuno dubita, ripeto, che nessuno, men che meno un Ministro della Repubblica italiana, possa ‘ingiuriare’ l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
Ma ciò non toglie – come chiaramente sottolineato dal nostro premier – che, se i magistrati vogliono fare politica, si debbano candidare.
Accettando, in caso contrario, che, chi non è eletto dal popolo, non possa, per questo solo, esercitare l’imperium statale.
Avvocato Guido Sola
Redazione Pressa
La Pressa è un quotidiano on-line indipendente fondato da Cinzia Franchini, Gianni Galeotti e Giuseppe Leonelli. Propone approfondimenti, inchieste e commenti sulla situazione politica, .. Continua >>