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'Il tragico episodio di Modena, dove una donna abbranca un nipote scegliendo per lui la morte, porta di nuovo in auge un luogo comune duro a morire che deve essere sfatato: la depressione ( ammesso che la donna in oggetto ne fosse affetta) , NON tramuta sic et simpliciter un individuo in omicida. Coinvolgere un altro nel proprio desidero di fine vita implica sempre una scelta soggettiva.
“Stermina la famiglia, era in cura per depressione”, ci ricorda ogni tanto la tv a proposito di qualche caso eclatante, che poi si scopre nulla avere a che vedere col male di vivere. Anche in questo caso i media sono subito andati alla ricerca della cartella clinica della donna cercando quella 'patologia dell'anima' che avrebbe minato una persona sino a quel momento “normale”. Perché? Uccidere senza un “vizio” di mente spaventa.
Si deve individuare una turba della psiche che ci permetta di non fare i conti con quella normalità entro la quale si muove chi sceglie la morte per sé e per un caro, e la 'depressione' è una sorta di etichetta buona per ogni occasione. Si sta verificando per la tragedia di Modena ciò che accadde per il recente 'infanticidio della signora Marisa Charrere, nel quale la depressione venne equiparata de facto all’atto omicida, attenuando le responsabilità della madre. C’è un precedente in occasione del quale assistemmo al fiorire di diagnosi improvvisate di depressione che misero in ombra quella che poi venne stabilito essere una chiara volontà di uccidere: il caso della signora Panarello, che uccise il piccolo Loris. Una nota scrittrice si sosteneva che “La depressione che colpisce le madri e che a vari livelli riguarda tutte è la causa di ciò che è avvenuto”.
I periti e la legge invalidarono qualsiasi ipotesi di “incapacità di intendere”, individuando nella donna una chiara determinazione omicida.
Relativamente al caso modenese, non si devono fare indebite deduzioni quando ancora le indagini devono prendere forma.
Bisogna invece ricordare la fatica spesso inumana che molti depressi fanno per non fare mancare la loro presenza, di padri e madri.
Nel buio della melanconia camminano ogni giorno uomini e donne prostrati da questo stato i quali, nonostante una vita difficile alla quale fa spesso da sfondo lo psicofarmaco, resistono alla scelta di chiamarsi fuori in nome di un figlio, di un caro, un essere al quale hanno delegato, amandolo, la funzione di punto di tenuta nel legame sociale. “Io non mi uccido perché non voglio lasciarlo solo” è una frase ricorrente in seduta, àncora di appiglio che molti genitori depressi lanciano al di là del mare nero. Sono tanti quelli che vivono in stati melanconici da anni, lottando ogni giorno, scegliendo di non cedere al buio in nome di chi hanno generato, o di chi hanno scelto di amare”
Maurizio Montanari
Psicoanalista
www.montanarimaurizio.com