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A nemmeno 24 ore dal concerto più imponente della storia della musica italiana confesso di sentire un grande vuoto dentro. Il lettore mi perdonerà se mi esprimo in prima persona: so che in certi casi non sta bene, ma per quanto mi sforzi, sento che mi sarebbe impossibile scrivere in altro modo di Vasco. Per me, infatti, il rocker di Zocca è molto più di un cantante. In vita mia ho letto tantissimo, ho collezionato due lauree in Lettere e Storia, ho apprezzato scrittori, artisti e parolieri oggettivamente più colti, raffinati e profondi (restando nel campo dei musicisti, mi limito a citare il più grande di tutti, Francesco Guccini); eppure nessuno è come Vasco!
Vasco mi entrò nelle ossa quando ero un adolescente, problematico come tutti i ragazzi a quell’età. Le sue canzoni erano per me sinonimo di rabbia, voglia di riscatto, protesta.
In una parola, ribellismo allo stato puro. Vasco del resto non si ascolta in silenzio: si può solo urlare nell’intimità di una camera da letto o nell’abitacolo di un’automobile. Vasco è frustrazione gridata in faccia al mondo, è libertà di pretendere leopardianamente un futuro di quiete dopo la tempesta. Vasco è tutto quello che si desidera ma che non si ha il coraggio di mostrare in pubblico.
Dicevo che a distanza di ore da Modena Park provo un senso di vuoto interiore. E non perché ho mancato l’«appuntamento con la storia». Non sono tipo da concerto, con le file chilometriche, il caldo, la ressa… Provo un senso di vuoto perché, dopo avere seguito la diretta tv di Rai 1, ho co-me la sensazione che un’epoca sia tramontata. So che Vasco ha concluso con un arrivederci e non con un addio, ma il punto non è questo.
Personalmente, riascoltando per la milionesima volta le canzoni della mia giovinezza, da Colpa d’Alfredo a Vita spericolata, sono stato come rapito dal pensiero che il me stesso di un tempo abbia lasciato parecchia strada dietro di sé. Non sono cambiati i miei valori, i miei ideali dopotutto resistono (e in certi casi si sono pure consolidati); eppure io non sono più lo stesso di prima.
Immagino che questa percezione debba essere ricondotta all’unicità dell’evento di ieri sera. Vasco festeggiava quarant’anni di carriera, e significativamente, nella presentazione conclusiva dei musicisti, Diego Spagnoli si è espresso con queste parole: «Ringraziamo i nostri illustri ospiti, con i quali stiamo festeggiando l’inesorabile passare del tempo. E quando il tempo sarà finito, di tutto rimarrà soltanto il ricordo. Cerchiamo di vivere una vita con la volontà di lasciare un ricordo bello, unico e irripetibile come questa sera al Modena Park».
Poco dopo Vasco intonava Albachiara, il brano conclusivo di ogni suo concerto. Spenta la televisione, ho provato un sentimento a metà strada tra l’angoscia e la malinconia. Un sentimento difficile da comprendere, soprattutto se ripenso alle difficoltà dei miei 15-20 anni e a come mi senta decisamente meglio oggi rispetto ad allora. Credo però che alla base di tutto ci sia il senso del compiuto, del finito. Quando ascoltavo Vita spericolata ai tempi della scuola avevo in mente soprattutto la fuga dalla noia. Sognavo cioè un’esistenza non banale, nella quale ogni istante potesse essere vissuto al massimo. Si trattava, in sostanza, di correre più veloce, senza mai sfiorare i freni. Una vita senza pause, proprio «come quelle dei film». Oggi non è più così. La quotidianità non mi spaventa, anzi placa i miei tormenti. Al momento mi sento meno Steve McQueen e più star a riposo che sorseggia whisky al Roxy Bar. E, come Diego Spagnoli, vivo nell’ansia di dover lasciare a tutti i costi una traccia per il domani. Per questo, credo, amo scrivere.
Da sempre mi assilla il senso del tempo. Vasco in questo ha dato voce a molte mie paure, impossibili da esorcizzare. Molti suoi brani parlano infatti di ciò che non c’è più, o di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Da qui nascono la rabbia, la frustrazione e quella tristezza che «si può racchiudere dentro una canzone». La stessa Colpa d’Alfredo – amata dai fan per lo più perché è infarcita di volgarità e contiene addirittura la parola «negro», autentico tabù per certa Italia malata di perbenismo a targhe alterne – è a ben vedere il grido disperato di uno sconfitto. E quando si perde ci si infuria, recriminando sulle occasione perdute.
Dicevo dei ricordi… In fondo, non è l’estensione del tempo andato il vero problema. Nella vita tutto cambia, e non necessariamente in peggio. È la percezione del tempo a spaventarmi a morte. Ieri sera, davanti alla televisione, ho toccato con mano il mio passato irripetibile, perduto per sempre. La musica di Vasco è stata la colonna sonora della mia giovinezza perché Vasco e solo Vasco ha saputo mettere in musica ciò che provavo in quegli anni, quando realmente per me vivere era un po’ come sopravvivere.
Non è per niente facile, io credo, intercettare il disagio di intere generazioni. Vasco ci è riuscito, e dopo quarant’anni emoziona adulti e giovani come nessun altro in Italia. Guccini, per esempio, è troppo colto ed elitario: colpisce il cervello, non lo stomaco. Vasco invece è di una semplicità disarmante. La sua spontaneità, la sua genuinità, il suo essere uomo della strada lo fanno arrivare dappertutto. Per le generazioni degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, poter urlare «Siamo solo noi» – con riferimento ad un popolo che assiste un po’ spaesato alla caduta di santi ed eroi, ovvero all’eclissi di qualsiasi riferimento pubblico in un mondo irrimediabilmente affetto dall’individualismo – equivale a sprigionare un grido liberatorio. «Noi siamo i soliti, quelli così; siamo i difficili, fatti così; noi siamo quelli delle illusioni, delle grandi passioni; noi siamo quelli che vedete qui»: così recita la più bella delle canzoni recenti di Vasco. E in questi versi c’è tutto il rocker di Zocca: la provocazione (siamo così, e quindi?), l’affermazione di un’identità (fatta di illusioni e passioni, spesso frustrate) e l’insopprimibile anelito di libertà («Noi siamo liberi, liberi, liberi di volare…»).
Vasco piace, credo, perché canta allo stesso modo di come si esprime al bar. Si potrebbe qui forse aprire una parentesi sull’importanza delle osterie nella storia d’Italia come luoghi di libera discussione, come zone franche nelle quali, tra un bicchiere e l’altro, erano tollerati un certo tipo di linguaggio e certe espressioni scurrili. Non per niente la morale dominante (non solo quella cattolica, si badi) le ha sempre additate come luogo di perdizione; e non a caso Mussolini ne fece chiudere a decine, vietando al loro interno le discussioni politiche. Senza divagare ulteriormente, mi limito a dire che l’osteria o il bar del paese hanno un fascino particolare in quanto sinonimi di libertà. E Vasco è tutto questo, perché canta delle sue donne, delle sue paure e dei suoi pensieri come farebbe con un compagno di bevute a Zocca.
Vasco, in definitiva, è un amico di paese. Personalmente lo apprezzo anche perché lo sento mio, delle mie parti. Non credo che apprezzerei allo stesso modo un Vasco milanese, romano o napoletano. È una questione di identità emiliana, di sensibilità localistica, se così è lecito dire. È difficile che un emiliano lodi se stesso, o la propria comunità. Ogni giorno sentiamo parlare della “lingua” napoletana (guai a relegarla al rango di dialetto) o del mito delle borgate romane. L’emiliano invece è schivo, si fa i fatti suoi. Contesta tutto per indole, ed è polemico per natura. Però è generoso; e si fa in quattro per le cause che ritiene giuste. Anche Vasco a pensarci bene è un po’ così: aggressivo perché timido, rumoroso perché introverso, racchiude in sé l’essenza di un’“emilianità” non esportabile. Vasco è un patrimonio universale: ma mentre per tutti è un cantante, per noi emiliani è una bandiera, il simbolo di un’identità.
Che dire quindi, in conclusione, di ieri sera? Ricordo che mentre veniva intonata Canzone («È nell’aria ancora il tuo profumo, dolce, caldo, morbido… Come questa sera, mentre tu non ci sei più») non riuscivo a pensare ad altro che al mio mondo di dieci e più anni fa. Un mondo, come detto, che è tramontato eppure ritorna continuamente. Come Vasco, che ormai – anche se forse l’avevo dimenticato – ho impresso sulla pelle come un marchio a fuoco. «Forse davvero ci si deve sentire, alla fine, un po’ male»? Probabilmente sì. «Forse era giusto così… Forse, ma forse, ma sì…!».
Luigi Malavasi Pignatti Morano