Da anni Lapressa.it offre una informazione libera e indipendente ai suoi lettori senza nessun tipo di contributo pubblico. La pubblicità dei privati copre parte dei costi, ma non è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge, e ci segue, di darci, se crede, un contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di
modenesi ed emiliano-romagnoli che ci leggono quotidianamente, è fondamentale.
'Le analisi condotte sono state prevalentemente sulle precipitazioni, perché erano quelle quantificabili con relativa certezza. Non abbiamo ritenuto serio e possibile fare una ricostruzione basata sull'idrometria. Possiamo pensare, sulla base del buon senso, che i tempi di ritorno sulle precipitazioni siano strettamente correlate a quelle delle piene, anche se questo punto non abbiamo valutazioni specifiche. Anzi possiamo dire che per quanto riguarda il secondo evento, gli effetti siano stati amplificati proprio dalle conseguenze che sul terreno già ricco di acqua aveva avuto il pimo evento. Possiamo quindi pensare a tempi di ritorno anche superiori'
Armando Brath, docente di costruzioni idrauliche all'Università di Bologna, e coordinatore della commissione tecnico scientifica che ha redatto la relazione commissionata dalla Regione Emilia Romagna sulle cause dell'alluvione del maggio scorso in Romagna, risponde così alla nostra domanda posta nella conferenza stampa di presentazione della relazione stessa alla presenza dell'Assessore regionale all'ambiente e alla Protezione Civile Irene Priolo.
La nostra domanda era tesa ad avere conferma o meno rispetto a quanto già emerso dagli studi e dalle valutazioni fatte sull'evento alluvionale dal Professor Orlandini, come Brath docente di costruzioni idrauliche ma all'Università di Modena. Studio che aveva valutato come i 700 milioni di metri cubi di acqua caduti sul territorio si fossero tradotti, tenendo conto di tutte le variabili e le caratteristiche non solo delle precipitazioni ma anche e soprattutto dei bacini fluviali sui quali le precipitazioni si erano abbattute, in termini di portate di piena e di tempi di ritorno delle piene stesse. Partendo dal precupposto che una cosa è misurare la quantità d'acqua assoluta caduta, un conto è l'effetto, tutto da verificare, che questa ha sulla base delle caratteristiche del territorio (naturali e artificiali) , sul quale l'acqua cade.
I dati emersi ed eleborati sulla base di modelli di ultima generazione, e presentati in diversi appuntamenti pubblici dal docente Unimore, avevano portato a concludere che il Tempo di Ritorno delle piene fosse in molti casi inferiore, anche di tanto, a quello dei Tempi di ritorno delle precipitazioni. Portando per alcuni casi all'ipotesi che per diversi bacini una messa in sicurezza degli stessi per piene con tempi di ritorno ventennali o cinquantennali o centenarie, avrebbe forse evitato fenomeni di esondazione così diffusa. Elementi fondamentali soprattutto per una programmazione per la messa in sicurezza dei bacini stessi e che purtroppo non abbiamo visto considerati nella relazione presentata, concentrata dichiaratamente sulla misurazione delle quantità di pioggia, sui tempi di ritorno delle precipitazioni e non delle piene.
Ed è quindi solo in questa ottica che va inquadrata la relazione presentata così come solo in questa ottica (ovvero di tempi di ritorno relativi alle precipitazioni e non alle portate di piena generate a valle), che va inquadrata l'eccezionalità dell'evento. Così come va inquadrata all'interno delle serie storiche (che partono da 100 e non da 1000 o più anni fa), la definizione di 'senza precedenti' utilizzata dagli amministratori per descrivere l'evento.
La relazione
Delle quasi 150 pagine del documento, 98 sono dedicate all’analisi puntuale di quanto accaduto: dai 23 fiumi esondati contemporaneamente, per un volume di esondazione stimato in circa 350 milioni di metri cubi, circa 11 dighe di Ridracoli, che ha provocato allagamenti in pianura su circa 540 chilometri quadrati quadrati di territorio (distribuiti pressoché nell’intera area romagnola, con interessamento anche della regione in destra del Reno e, per il primo dei due eventi, anche dei bacini del Panaro e del Secchia); alle 65.598 frane - scivolamenti rapidi in terra o detrito, colate di fango, scivolamenti in roccia - censite su un’area di 72,21 chilometri quadrati; alle 1.950 infrastrutture stradali coinvolte da dissesto (il 3,6% dell’intero tracciato stradale delle sei province colpite, di cui il 36,2% delle comunali e il 35,7% di quelle vicinali a uso pubblico, e il 18,5% delle private).
“Un evento senza precedenti nella storia osservata” scrivono gli esperti, con tempi di ritorno - grandezza statistica che esprime la probabilità che un evento accada - “in alcuni casi molto superiori ai 500 anni dove le esondazioni sono state più significative”. Parliamo soprattutto dei bacini di Senio, Lamone e Montone, con un ruolo decisivo della rete artificiale di scolo presente in pianura (reticolo di bonifica e Canale Emiliano-Romagnolo) che ha inciso sulla dinamica di propagazione delle inondazioni. Ancora più alta, quasi inestimabile e nell’ordine di qualche migliaio di anni, la probabilità di accadimento dei due eventi come quello del 2-3 maggio e quello del 16-17 maggio. E proprio il susseguirsi dei due eventi ha portato le conseguenze note dal momento che i terreni erano già saturi e avevano impermeabilizzato i suoli che non riuscivano più a ricevere.
Elementi e considerazioni che per la ricostruzione consigliano, anziché una semplice riproposizione di modelli di intervento tipici del passato, di sviluppare percorsi di approfondimento tecnico-scientifico per implementare nuove modalità di intervento e agire su più fronti, con interventi non strutturali e strutturali.
“Abbiamo affrontato qualcosa di difficilmente immaginabile. Ce lo dice anche la Commissione esterna, di elevato profilo tecnico-scientifico, che abbiamo incaricato per effettuare valutazioni specifiche e qualificate sull’evento di maggio, per aggiornare il quadro conoscitivo e fornire indicazioni per una futura corretta gestione del rischio idraulico e idrogeologico nella regione- sottolinea la vicepresidente con delega alla Protezione civile, Irene Priolo-. Quello che ci restituisce, inoltre, è un’elevata complessità che non potrà essere affrontata con un’unica soluzione: approfondiremo le indicazioni contenute in questo Rapporto per la pianificazione degli interventi futuri e utilizzeremo queste preziose indicazioni tecniche per impostare la ricostruzione. L’apporto della comunità scientifica è fondamentale, tenendo conto anche dell’orizzonte in cui ci muoviamo, e su cui impattano pesantemente i cambiamenti climatici. Comprendere bene gli eventi e cosa hanno significato era necessario per aiutarci ad individuare le scelte corrette di fronte ad un evento così complesso. Bisogna cambiare paradigma rispetto all’approccio tradizionale alla luce di statistiche completamente stravolte”.
Le frane
Dopo un’accurata analisi della caratterizzazione idrologico-idraulica dell’evento con la valutazione dei volumi di pioggia caduti sui bacini, anche in sede storica, il Rapporto prosegue con una sezione dedicata alle frane. Base dell’analisi, l’accurata mappatura effettuata dalla Regione Emilia-Romagna che evidenzia come oltre 65mila frane abbiano completamente sconvolto il territorio. Di queste solo 576 hanno un’estensione superiore all’ettaro ma le restanti, seppur piccole, sono caratterizzate dall’essere veloci (si parla in tanti casi di spostamenti di metri al secondo) e per questo molto distruttive.
Le curve della distribuzione delle frane censite, di cui il 78,5% di neoformazione, evidenzia ancora di più l’eccezionalità di entrambi gli eventi meteorologici, e ancor più della loro concomitanza, sia dal punto di vista della vastissima estensione del territorio coinvolto, sia dal punto di vista delle quantità di pioggia caduta. In particolare, l’evento del 15-17 maggio è stato caratterizzato non solo da una maggiore intensità ed estensione, ma anche, a differenza del primo, da condizioni iniziali di totale saturazione dei suoli. La maggiore densità delle frane rilevate e mappate è localizzata effettivamente nelle aree dove sono cadute le quantità massime di pioggia nelle province di Bologna, Ravenna e Forlì-Cesena.
I principali cambiamenti dell’uso del suolo
Il Rapporto dedica poi ampio spazio all’analisi di cambiamenti dell’uso del suolo in Emilia-Romagna nel corso degli anni e agli elementi che possono incidere sul rischio idraulico. A partire dal ruolo esercitato dalla copertura forestale nel prevenire o mitigare il dissesto: “Un’azione regimante importantissima e fondamentale ma quando si verificano eventi meteorici eccezionali la capacità di ritenzione viene saturata”. La foresta (indipendentemente da densità composizione, struttura e modalità di gestione) non può impedire le ondate di piena quando si verificano eventi di intensità e durata tali da saturare l’effetto “spugna”. Gli esperti sottolineano che la copertura forestale in Emilia-Romagna, tra il 1954 e il 2017, si è estesa su 287.543 ettari di nuova superficie (neoformazione), a fronte di una contrazione di 58.717 ettari (deforestazione), con un bilancio perciò nettamente a favore dell’espansione della foresta.
E poi la vegetazione sugli argini dei fiumi e corsi d’acqua che svolge, da un punto di vista idraulico, “un ruolo di fondamentale importanza durante gli eventi di piena: aumenta la scabrezza, cioè la resistenza che l’acqua incontra scorrendo e quindi protegge le sponde dall’erosione, rallenta la velocità del flusso ed intrappola sedimenti e materiali trasportati dalla corrente”. Ragion per cui è consigliato dagli esperti un taglio di tipo selettivo e colturale, mantenendo una copertura di alberi e arbusti non inferiore al 20%.
Infine, la relazione tra rischio idraulico e consumo di suolo. L’Emilia-Romagna è la regione con la maggiore superficie compresa nelle aree a pericolosità media P2 (oltre il 45% del territorio regionale). Un dato sovrastimato, dicono gli esperti, dal momento che l’Emilia-Romagna, a differenza delle altre Regioni, “ha deciso di considerare nella mappatura anche le aree che risultano allagabili da parte del reticolo artificiale di pianura (ovvero dalla rete di bonifica), anziché soltanto quelle interessate dall’esondazione dal reticolo idrografico naturale”, decisione che di fatto fa ricadere in area P2 tutta l’area di pianura.
Elementi che portano gli esperti a concludere che, oltre a proseguire nel controllo severo sul consumo di suolo, le prime e indispensabili misure preventive di mitigazione del rischio sono la redazione e l’applicazione di Piani forestali di indirizzo territoriale.
I cambiamenti attesi di precipitazioni negli scenari climatici futuri
Il Rapporto, prima di passare alle conclusioni, prende in considerazione sette bacini (Idice, Sillaro, Santerno, Senio, Lamone, Montone e Ronco) e, tra le altre cose, estrae proiezioni climatiche dei massimi annuali delle piogge previste per il periodo 2041-2070 sulla base di due diversi scenari emissivi, ma evidenzia, allo stesso tempo, come questi dati possono essere solo una prima valutazione perché analisi di questo tipo devono necessariamente essere basate sull’uso di proiezioni fornite non da un unico modello climatico ma da più modelli in modo da poter caratterizzare adeguatamente l’incertezza delle previsioni.
Gli esiti dello studio e le proposte operative sugli interventi
Alla luce della portata degli eventi, la Commissione, nella parte conclusiva del Rapporto, ritiene quindi che un’opportuna proposta operativa di gestione territoriale debba essere basata sulla combinazione di interventi non strutturali e strutturali di mitigazione del rischio.
Tra i non strutturali, emerge la necessità di aumentare le attuali capacità di previsione degli aspetti meteorologici, idraulici e idrogeologici, attraverso dati ad alta risoluzione, la costruzione di gemello digitale idrogeologico regionale (digital twin) e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale e dei big data; una nuova redazione dei principali strumenti in ambito di pianificazione; l’esecuzione di accurate modellazioni specifiche di scenario per valutare gli effetti della rete artificiale di scolo su inondazioni future; migliorare la pianificazione di Protezione civile, portando a piena conoscenza di tutti cittadini sia il sistema di allertamento che i piani, mediante esercitazioni e il pieno utilizzo dei moderni sistemi di comunicazione; ancora, la necessità di procedere ad attente verifiche sulla pianificazione del territorio, che vadano ad agire sulla riduzione del consumo di suolo e il ripristino delle aree di pertinenza fluviale.
Tra gli interventi strutturali, è sottolineata la necessità di opere di ingegneria opportunamente progettate e realizzate, anche attraverso l’utilizzo delle più recenti innovazioni nel settore; per quanto riguarda le frane, occorre realizzare opere di stabilizzazione di singoli versanti e di regimazione delle acque superficiali; per i fenomeni alluvionali - ha specificato il Prof Brath è necessario costruire nuove opere di laminazione delle piene, bacini montani (utili anche in caso di siccità), realizzare interventi strutturali indirizzati a restituire maggiore spazio ai fiumi, predisporre piani di gestione del verde che mantengano l'equilibrio nella vegetazione necessaria ed in eccesso sulle aste fluviali (e in questo ambito esistono da anni studi approfonditi). valutata come ipotesi anche la possibilità, come è successo in romagna, degli allagamenti controllati di aree del territorio. Per limitare l'ondata di piena prima che possa impattare con territori in cui i danni sarebbero maggiori.
Elementi, questi ultimi di carattere strutturale, che almeno negli ultimi due decenni non abbiamo visto.
Gi.Ga.