«Sono don Tarcisio» dice sberrettandosi, poi si presenta come il professore di filosofia: perché, da quest'anno, studieremo anche la filosofia. Non appena si accomoda in cattedra, anziché attaccare con l'appello e con la spiegazione di cos'è la filosofia, don Tarcisio ci investe con una mitragliata di domande. Vuole sapere di noi, chi siamo, da dove veniamo, cosa ci piace, perché ci piace.
«Amo la montagna» dice, e io mi predispongo all'ascolto spontaneamente. Anzi: mi sento chiamato in causa perché ho il presentimento di una piccola rivoluzione copernicana. Forse, con don Tarcisio, tutto quello che sono fuori riuscirà a trovare cittadinanza anche a scuola. «Io scio». «Bene» sorride lui. «Anch'io. Ma quello che amo di più della montagna sono le cascate di ghiaccio. Mi piace scalarle». Non ho mai conosciuto un prete così, professore di filosofia e scalatore, e quello che più mi disorienta è la sua modestia. La modestia con cui ci confida capacità fuori dal comune, o con cui sviscera i dettagli avendone cura. E sono proprio i dettagli dei suoi racconti montani i dettagli fisici delle piccozze che fanno crepitare il ghiaccio, le sue sfumature, i ramponi e i piedi in fallo a tramutare la montagna in un'esperienza esistenziale. «Ogni tanto la parete te lo mostra subito, l'appiglio giusto. Ogni tanto, invece, tocca prendere un respiro e osservare senza fretta. Perché la fretta ti fa immaginare le linee sbagliate. E in montagna, uno sbaglio costa caro». Sono ammaliato
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