Sono passati vent'anni da quella tragedia. In una anonima stanza d'albergo si concludeva in modo drammatico la vita di un ragazzo diventato il simbolo per una intera generazione della voglia di combattere e di reagire davanti alle avversità, al caso, al disegno di un dio distante e sordo.
Molto più di un ciclista, molto più della metafora del passaggio di borraccia tra Coppi e Bartali. Dal Pordoi a Les Deux Alpes, quando Marco Pantani si alzava sui pedali, quando si toglieva la bandana e mangiava le salite, era come se portasse con sè una fetta di Paese.
Una carriera costellata di infortuni e di sfortuna, sfidata ogni volta, colpo su colpo. Una vita fatta di sacrifici, di sorrisi e di braccia finalmente alzate al cielo.
A Gianni Mura che gli chiedeva perché andasse così forte in montagna, Pantani rispondeva: 'Per abbreviare la mia agonia'. Quasi a pronunciare inconsciamente la sua disponibilità a sacrificarsi per regalare a chi lo guardava la speranza che i miracoli fossero possibili, anche a dispetto degli dei, per verbalizzare una sofferenza del cuore che forse nemmeno comprendeva fino in fondo, per dire che la strada stretta passa non dal silenziare la propria fragilità, ma dall'ammetterla. Abbracciandola. Offrendo un sorriso anche nel momento del dolore.
Vent'anni fa, in una stanza d'albergo di una Romagna assopita nel letargo invernale moriva Marco Pantani.
Eppure anche oggi, a vent'anni di distanza, nelle giornate senza nuvole, riemerge, come un ritornello lontano, il desiderio di riprovarci ancora, nonostante i tanti infortuni. Sfidando, se necessario, la razionalità, dando un calcio a una Fede superstiziosa, fatta di abitudine e paura. Aggrappandosi alla rabbia o alla debolezza, alla Speranza o al semplice dispetto, rialzarsi sui pedali da soli o appoggiandosi a un compagno di viaggio. Rialzarsi un giorno alla volta davanti alle Madonna di Campiglio che ogni uomo è costretto, prima o poi, ad affrontare.
Giuseppe Leonelli