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Pochi giorni fa il Congresso americano ha approvato praticamente all'unanimità (un solo voto contrario alla Camera dei Rappresentanti) l'Hong Kong Human Rights and Democracy Act e un'altra legge che bloccherebbe l'esportazione di prodotti per il controllo delle folle alla polizia di Hong Kong.
“Con l'Hong Kong Human Rights and Democracy Act riaffermiamo l'impegno dell'America per tutelare la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto di fronte alla repressione di Pechino” ha affermato trionfalmente la presidente della Camera dei Rappresentanti, la democratica Nancy Pelosi.
Questa legge, come qualsiasi altra, necessita della firma del presidente per entrare in vigore. Il fatto è che Donald Trump, non sembra, al momento, disponibile a firmarla. “Dobbiamo stare dalla parte di Hong Kong, ma io sto anche dalla parte del presidente Xi. È un mio amico e vorrei che se la risolvesse da solo” ha dichiarato il presidente americano durante un'intervista telefonica concessa a Fox News.
Trump non ha mai condannato apertamente le violenze della polizia a Hong Kong. Egli teme che una netta presa di posizione a favore dei manifestanti possa compromettere le trattative commerciali tra Stati Uniti e Cina.
Che Trump non difenda a spada tratta i diritti umani non è affatto una sorpresa. Specialmente se fare ciò comporta condannare la Cina, grande potenza con cui gli Stati Uniti hanno un conto commerciale, e strategico, aperto. La priorità di Trump è chiarissima: il negoziato con la Cina viene prima dei manifestanti di Hong Kong.
Questa osservazione la si può facilmente estendere a tutto l'Occidente, dove per Occidente s'intendono gli Stati Uniti e l'Unione Europea. Per l'Occidente le relazioni con la Cina sono più importanti delle relazioni con i manifestanti di Hong Kong i quali si sono rivoltati perché vogliono la democrazia.
Siccome i manifestanti di Hong Kong chiedono maggiori diritti politici vi dovrebbe essere una teorica alleanza fondata sui valori tra essi e l'Occidente. Ma il sostegno dell'Occidente ai manifestanti è stato finora molto timido tant'è che Joshua Wong, uno dei leader della rivolta, ha lamentato l'inerzia dell'Unione Europea, che pur si proclama baluardo dei diritti dell'uomo e della democrazia.
Ancora una volta giova sottolineare la tensione esistente tra i valori di cui l'Occidente si autoproclama sostenitore e la prassi della politica estera. Gli Stati infatti non basano la loro politica estera solo ed eslusivamente su considerazioni valoriali. Essa dipende in prima istanza da considerazioni che hanno a che fare con il contesto politico ed economico in cui gli Stati si trovano ad operare.
Di conseguenza l'Occidente privilegia i rapporti con la Cina, regime autoritario e repressivo con cui non condivide nulla dal punto di vista valoriale, piuttosto che quelli con i manifestanti di Hong Kong, con cui condivide i valori liberal-democratici, in primo luogo perchè la politica internazionale è fatta dagli Stati e non dagli individui, in secondo luogo perchè la Cina è la seconda potenza economica del pianeta, quindi intrattiene intensi rapporti commerciali e finanziari con l'Occidente, e detiene anche un notevole deterrente militare.
Pertanto i manifestanti di Hong Kong sono abbandonati a loro se stessi. Essi sono soli contro le autorità locali e cinesi. L'Occidente darà loro solo un timido sostegno a parole.
Gli Stati Uniti, che per lungo tempo hanno sostenuto l'universalità dei valori liberal-democratici, quindi la necessità di intervenire affinché essi siano osservati e rispettati in tutto il mondo,vengono messi di fronte ancora una volta alle loro contraddizioni. Quando gruppi di individui oppressi reclamano democrazia e libertà essi non intervengono in loro aiuto. La presunta universalità dei valori liberal-democratici si inginocchia di fronte al puro realismo politico.
Tale osservazione è valida anche per l'Unione Europea la quale però non dispone di capacità militari paragonabili a quelle statunitensi.
Trump non si schiera con convinzione dalla parte dei manifestanti di Hong Kong anche perchè la posta in gioco tra Stati Uniti e Cina non è alta, è altissima. Questo dato è stato recentemente sottolineato da Henry Kissinger, ex consigliere per la sicurezza nazionale (1969-1975) ed ex segretario di Stato (1973-1977), artefice della normalizzazione dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare di Cina culminata con il viaggio del presidente Richard Nixon a Pechino (1972).
Kissinger, parlando al New Economy Forum di Pechino, ha ammonito che Stati Uniti e Cina si trovano “ai piedi di una nuova guerra fredda”. Ovviamente ci sono importantissime differenze con la guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica che caratterizzò la seconda metà del XX secolo. In quel caso, per esempio, i due contendenti non erano stretti partner commerciali e l'Urss, a differenza della Cina, non era un competitore economico degli Stati Uniti.
Kissinger parla di guerra fredda perché esiste una tensione tra Stati Uniti e Cina – la cosiddetta guerra commerciale ne è una dimostrazione – che se non verrà gestita e ammaestrata inasprirà i rapporti tra le due grandi potenze. In tal caso, non si potrà escludere un'eventuale degenerazione bellica.
Se il presidente americano prendesse posizione nettamente in favore dei manifestanti di Hong Kong, oltre a compromettere il negoziato commerciale, aumenterebbe la tensione tra Cina e Stati Uniti nell'ambito della nuova guerra fredda a cui ha fatto riferimento Kissinger.
Massimiliano Palladini
Redazione Pressa
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