Da anni Lapressa.it offre una informazione libera e indipendente ai suoi lettori senza nessun tipo di contributo pubblico. La pubblicità dei privati copre parte dei costi, ma non è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge, e ci segue, di darci, se crede, un contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di
modenesi ed emiliano-romagnoli che ci leggono quotidianamente, è fondamentale.
Dopo le elezioni presidenziali del 20 settembre la Bolivia è un paese spaccato in due. Le proteste, che durano già da tre settimane, vedono schierati da un lato i sostenitori di Evo Morales e del MAS (movimento al socialismo), eletto per la prima volta nel 2006 e rieletto per la quarta volta questo 20 settembre, e dall’altro gli oppositori del governo, alla cui testa si trova l’ex-presidente Carlos Mesa leader del CC (Comitato Civico). La crisi politica è iniziata quando, durante il conteggio dei risultati (che davano quasi per certo un rinvio ad una seconda elezione), sono state bloccate improvvisamente le trasmissioni per 24 ore.
Il giorno dopo, senza alcuna chiara spiegazione, il tribunale elettorale ha nominato Evo Morales presidente con il 47,8% dei voti, una maggioranza che supera proprio del necessario 10% l’oppositore Carlos Mesa, votato al 36,51%.
Mesa ha immediatamente richiesto un’ispezione all’ OAS (Organizzazione degli Stati Americani) per controllare i risultati e sporto denuncia per broglio elettorale. Le tensioni sono immediatamente esplose nelle più grandi città Boliviane con scioperi, blocchi stradali e proteste che hanno paralizzato completamente il paese. Nelle ultime tre settimane c’è stata una graduale escalation nell’intensità delle proteste che hanno causato almeno tre morti, e che non intendono fermarsi fino alle dimissioni di Evo Morales dalla carica presidenziale. Questo venerdì, Il ministro degli interni Carlos Romero ha dichiarato il colpo di stato, decidendo comunque di risolvere la situazione in termini democratici e senza l’utilizzo dell’esercito. Questo ha causato una svolta nel corso degli eventi, portando a una presa di posizione da parte delle forze di polizia a Cochabamba e poi a Santa Cruz, che hanno deciso di schierarsi con i protestanti, abbandonando i posti di blocco.
Questa domenica, Morales ha fatto un passo indietro, decidendo di annunciare nuove elezioni come unico mezzo per calmare le proteste che ormai stanno compromettendo la stabilità del paese. Questi conflitti sono, però, frutto di tensioni più radicate, rimaste dapprima latenti e andate via via intensificandosi a partire dal 21 Febbraio 2016, quando la popolazione votò “No” al referendum che avrebbe permesso a Evo Morales di ricandidarsi per un quarto mandato. Gli oppositori, quindi, già da anni denunciano la sua candidatura come anticostituzionale e richiedono un cambiamento nel governo. Morales, d’altronde, ha ancora molti sostenitori, in quanto è riuscito a mantenere per più di 12 anni una stabilità politica in un paese che storicamente ha sempre avuto molte fratture sociali.
È inoltre il primo presidente di origine indigena eletto in tutto il continente sudamericano e rappresenta una svolta significativa a livello politico, sociale ed economico, in quanto è riuscito a diminuire la povertà, migliorare le infrastrutture, e rivendicare l’orgoglio delle culture locali ancestrali, che erano sempre state motivo di discriminazione. Dopo 12 anni di stabilità, però, si sono creati nuovi fenomeni sociali all’interno del paese che comportano nuove sfide alle quali apparentemente nessuna delle due alternative è riuscita a rispondere adeguatamente. Il futuro della Bolivia è ancora molto confuso ed è difficile fare pronostici su quello che succederà nei prossimi mesi. L’intento di questo breve affresco non è quello di creare antagonismi politici, in quanto la situazione a livello locale è sempre più complessa di quanto appare nelle statistiche, ma si propone piuttosto di dar voce a quelle persone, che, come molte altre nel mondo, scendono in piazza per difendere i loro diritti e la democrazia.
Claudia Carpanese