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«A tutti coloro che hanno davvero combattuto e ancora combattono valorosamente contro mafia e terrorismo, a spregio di cialtroni e parolai che sfruttano i sacrifici di quegli uomini per conquistare potere e ricchezza personali ». Con questa frase inizia il libro di Mario Mori, il generale dei carabinieri che dopo le stragi del ‘92 in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino comandò il Ros e guidò quel famoso capitano «Ultimo» che il 15 gennaio del 1993 catturò Salvatore Riina. 24 anni dopo, anche Modena si ferma per ricordare l’o micidio di Paolo Borsellino.
Se la parola ‘eroe’ ha un senso, senza retorica è sacrosanto applicarla alla figura di Borsellino. Da tanti, anche oggi, anche dai presunti e osannati paladini dell’antimafia, usata e strumentalizzata. Nei suoi discorsi pubblici dopo la morte di Falcone, nelle interviste, la consapevolezza di essere bersaglio.
Di essere «cadavere che cammina». Una consapevolezza che non gli impediva di sognare quel «profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale». E c’è un episodio in quei 57 giorni tra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio che merita di essere ricordato. Un episodio poco noto, ma che rappresenta una sorta di testamento morale del magistrato. Era il 5 giugno del 1992. Erano passati 13 giorni dall’uccisione di Falcone, della moglie e di tre uomini della scorta. A Terrasini, in provincia di Palermo, Borsellino partecipa a una cena con alcuni magistrati e un gruppo di carabinieri del Ros.
Tra questi anche il famoso maresciallo Antonio Lombardo, morto suicida con un colpo di pistola nel 1995 a 49 anni, dopo un’infamante opera di delegittimazione («Mi sono ucciso per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e i miei figli» - scrisse in una lettera).
Ecco, in quella cena - secondo la testimonianza di uno dei presenti - si parlò a lungo dei rapporti tra Cosa Nostra italiana e quella statunitense e Borsellino, tra sigarette e bicchieri di vino rosso, tenne una vera e propria lezione sulla Mafia siciliana. E a fine cena il giudice alzò il calice e disse «Questa è la cena degli onesti ». Un brindisi che, con umiltà, ognuno nel proprio campo, ognuno con le proprie derive e i propri fantasmi potrebbe avere il coraggio di fare proprio. Alzare il calice stasera e dirsi: Io voglio far parte di quella cena. Nella certezza che conoscenza e onestà, conoscenza e onestà (esattamente in quest’ordine), sono il presupposto per rompere contiguità e connivenza. E che, spesso, è più faticoso sforzarsi di conoscere che decidere, sulla carta, di essere onesti.
Giuseppe Leonelli
Direttore responsabile della Pressa.it.
Nato a Pavullo nel 1980, ha collaborato alla Gazzetta di Modena e lavorato al Resto del Carlino nelle redazioni di Modena e Rimini. E' stato .. Continua >>