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Le lasagne di Charlie

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La morte in mezzo: quel patto silente che adesso si è rotto


Le lasagne di Charlie
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Un terremoto all’italiana (davvero, il titolo è questo): con le penne al pomodoro rappresentate da una persona ferita e insanguinata, le lasagne che sono in realtà macerie a più strati che hanno sepolto decine di persone (si vedono i piedi che spuntano). E poi la didascalia: “Non si sa ancora se il terremoto abbia gridato Allah Akbar prima di tremare”. Eccola qui, l’ultima pagina del numero di Charlie Hebdo in tutte le edicole francesi. Fino qui, staremmo qui a parlare di semplice satira internazionale dal cattivo gusto. E invece no: la situazione è un pochino più complessa. Perchè Charlie Hebdo è ‘quel’ settimanale satirico: quello in cui, il 7 gennaio 2015, due uomini armati di kalashnikov fecero irruzione uccidendo dodici persone.

Il direttore Stéphane Charbonnier detto Charb, diversi collaboratori storici del periodico (Cabu, Tignous, Georges Wolinski, Honoré) e due poliziotti persero la vita: fu la prima pagina di un terrorismo che, nell’anno successivo, è entrato in Europa con la faccia degli immigrati di seconda generazione, travolgendo il Belgio e poi ancora la Francia, seminando il Terrore per davvero. Ecco, alla strage di Charlie Hebdo seguì una mobilitazione di matite davvero encomiabile: ‘Je suis Charlie’, ‘Io sono Charl i e’. E cioè: terrorismo, se vuoi far fuori Charlie Hebdo devi fare fuori anche me. Perchè la satira non si tocca, perchè la satira è libera, perchè la satira è più della critica, perchè guai mai per la satira, non ci farete mai tacere perchè noi siamo liberi.

‘Je suis Charlie’ ha diffuso un senso di adesione totale alla causa non tanto dell’H eb d o (ché mica tutti lo conoscevano prima di quella strage, anzi), ma a quella della libertà di espressione come massima caratteristica di chi non è succube di nessuna ideologia. E la prima pagina di Charlie ‘o r fan o ’ dei suoi vignettisti migliori aprì, con una tiratura da un milione di copie andata esaurita anche in Italia in coppia col Fatto quotidiano che per un giorno se lo sposò, con una vignetta dal titolo ‘Tutto è perdonato’. Siamo tutti Charlie anche oggi? Siamo Charlie Hebdo anche a l l’indomani dell’infelice e brutta vignetta che ci raffigura come dei mangiapasta insanguinati? Sui social no: sui social gira l’indignazione e la bandiera di ‘Je suis Charlie’ è ampiamente ammainata. Facciamo bene a non essere più Charlie oppure, avendolo sostenuto ai tempi del dramma, siamo confinati a sostenerlo per sempre, complici partner di una satira alla deriva? Probabilmente facciamo bene a mettere Charlie nel cassetto. E non tanto perchè ha toccato l’Italia (su, saremo anche indietro con la libertà di espressione ma non siamo mica permalosi), quanto perchè Charlie ha valicato il confine del patto silente. Un patto rispettoso che si chiama morte. Sono morti in tanti a Charlie Hebdo: professionisti che ogni settimana offrivano al mondo (beh, almondo: ad una piccola parte di lettori francesi) il frutto della loro creatività, pronti a sobbarcarsi più critiche che elogi e di godere di tanta più pubblicità quanto più si alzava il livello del cattivo gusto o della polemica. Ma la morte no; la luce che si spegne merita il silenzio. ‘Je suis Charlie’, detto dopo il buio del kalashnikov, significa anche ‘Sono Charlie perchè potevo essere anche io Charlie; potevo morire anche io al lavoro, vittima a caso di un terrorismo che sceglie a caso’. La morte in mezzo al terremoto del Centro Italia chiedeva alla satira lo stesso silenzio: quasi 300 morti, scuole polverizzate ma pure antisismiche, responsabilità umane, ritardi e politica in affanno. Va bene, tutto vero. Charlie Hebdo, il patto era che - in cambio - si respirasse intorno alla morte lo stesso silente rispetto che ai tempi sfoderò chi disse ‘Je suis C h a rl i e ’ pur odiando la satira. E no, non si dica che quella vignetta è il modo del settimanale per starci vicino (e sì, a volte siamo anche permalosi). Faccia però l’Italia ciò che seppe fare Charlie: ‘Tout est pardonné’, tutto è perdonato. Chè qui abbiamo da ricostruire in troppo poco tempo migliaia di case con soldi che non abbiamo.

Sara Zuccoli


Redazione Pressa
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