Conflitto Israele-Palestina: qual è il costo della vendetta?
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Conflitto Israele-Palestina: qual è il costo della vendetta?

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Se voleva vendicarsi, si può dire che Netanyhau abbia ampiamente centrato il suo scopo. Ma a che prezzo e soprattutto con quali conseguenze?


Conflitto Israele-Palestina: qual è il costo della vendetta?
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Il conflitto tra Hamas e Israele è ancora in pieno svolgimento e al momento non si intravvede ancora quali potranno essere i suoi sviluppi e tantomeno come e quando si concluderà. Il grande punto interrogativo che resta drammaticamente in sospeso è se Israele riuscirà ancora, come nei suoi precedenti interventi militari nella striscia di Gaza, culminati nelle sanguinose operazioni Piombo Fuso del 2008 e Margine di Protezione del 2014, a reprimere e circoscrivere la rivolta, o se invece l’incendio si estenderà stavolta ad altri paesi del Medio Oriente innescando una reazione a catena dagli esiti imprevedibili.

Quella in corso è senz’altro il più grave conflitto affrontato da Israele dalla guerra dello Yom Kippur, che ebbe luogo esattamente cinquant’anni fa. Anche allora gli israeliani furono colti di sorpresa dall’attacco delle truppe egiziane alla linea Bar Lev nel Sinai, ma riuscirono rapidamente a riprendersi e a sferrare a loro volta un attacco in territorio egiziano al di là dello stretto di Suez, raddrizzando le sorti del conflitto.

Iniziata il 6 ottobre, quella guerra si concluse il 25, a nemmeno tre settimane di distanza. Lo scontro ora in atto dura ormai da un mese e mezzo, e con un bilancio provvisorio di 12-13 mila morti è probabilmente è destinato a passare alla storia come il più lungo e sanguinoso tra quelli combattuti da arabi e israeliani dopo il 1948.

Per certo, l’operazione Alluvione di Al-Aqsa scatenata lo scorso 7 ottobre dalle milizie di Hamas contro centri militari e civili israeliani rappresenta il colpo più duro che Israele ha dovuto sinora subire dalle rivolte germogliate nei territori palestinesi in tutta la sua storia; e ciò non solo e non tanto per il numero delle vittime (circa 400 militari, oltre a un migliaio di civili a cui vanno aggiunti alcune centinaia di ostaggi caduti nelle mani degli assalitori), ma soprattutto per la capacità militare, organizzativa e logistica di primo livello di cui il movimento fondamentalista ha sorprendentemente per la prima volta dato prova, riuscendo a colpire il cuore stesso dello stato ebraico, là dove mai nessun gruppo armato palestinese era riuscito ad arrivare prima.

Dopo aver assunto il controllo della striscia di Gaza nel 2007, estromettendo Fatah e l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen al termine di una breve ma sanguinosa guerra civile, Hamas aveva provato più volte a sfidare lo stato ebraico con il lancio degli artigianali missili Qassam, di peraltro modesta potenza e precisione, senza però essere in grado di mettere in atto significative incursioni con milizie armate fuori dal proprio territorio. Il ferreo controllo sui confini marittimi e terrestri di quel microscopico territorio tra il deserto e il mare dava finora sufficienti garanzie a Israele di poter faticosamente gestire, anche se non stroncare alla radice, le dinamiche insurrezionali e “terroristiche” di Hamas.

Nella Cisgiordania governata dall’ANP il modello di sorveglianza-repressione aveva tutto sommato funzionato poiché l’ultima grande rivolata Intifada in quelle terre data ai primi anni 2000. Ma la Striscia di Gaza non è la Cisgiordania, in cui ai palestinesi sono stati concessi seppur limitati spazi di autogoverno e d’iniziativa economica e sociale. Dal 2005 l’enclave di Gaza è invece soggetta a un blocco totale da parte di Israele, che si traduce nel “confinamento” di fatto di oltre due milioni di palestinesi in un territorio di soli 360 km quadrati, nella restrizione dell’importazione di beni anche essenziali e nell’impossibilità di sviluppare qualsiasi attività economica. Ne consegue che a Gaza, che ha una densità di quasi seimila abitanti per km quadrato, il 90 per cento della popolazione è al di sotto della soglia di povertà e sopravvive grazie agli aiuti delle agenzie umanitarie e dei paesi arabi.

E’ in questo contesto socio-economico di grave degrado che il movimento islamista di Hamas è nato nel 1987 e ha trovato terreno fertile per espandersi e consolidarsi, distinguendosi per il suo radicalismo e la feroce determinazione a combattere “l’occupante sionista”, anche mediante il ricorso al “terrorismo” contro i civili. Ai suoi esordi, Hamas era stato anzi favorito dagli israeliani, che pensavano fosse utile a indebolire l’OLP, al tempo in cui i “terroristi” palestinesi erano Yasser Arafat e il suo partito Fatah. Quando compresero che Hamas stava diventando una minaccia ancora più pericolosa degli altri movimenti armati antisionisti, tentarono di correre ai ripari ma era ormai troppo tardi. Nel 2004 un elicottero Apache uccise nella moschea dove si recava a pregare Ahmed Yassin, lo “sceicco cieco” fondatore di Hamas. Già nei primi anni ’90, poco prima di essere assassinato da un estremista ebreo, l’ex primo ministro Ytzhak Rabin, aveva dovuto ammettere che “l’aver creato e dato supporto ad Hamas è stato per Israele un errore fatale”.

La serie TV israeliana Fauda di questi ultimi anni, incentrata sul conflitto israelo-palestinese, descrive con efficace realismo la pervasiva sorveglianza sui territori occupati esercitata dall’intelligence e dai corpi speciali israeliani con il supporto della tecnologia satellitare e dell’infiltrazione nella società palestinese a tutti i livelli. L’attacco del 7 ottobre ha avuto l’effetto immediato di compromettere l’immagine di leggendaria efficienza delle forze armate di Tsahal e del controspionaggio nelle sue articolazioni del Mossad (estero), Shin Bet (interno) e Aman (esercito). Per mesi, se non per anni, “l’armata del sottosuolo” di Hamas è riuscita a scavare centinaia di chilometri di tunnel, a fabbricare migliaia di razzi, a contrabbandare e occultare ingenti quantitativi di armi, con il prevedibile sostegno del Qatar e dell’Iran, senza che i centri decisionali di Tel Aviv avessero la minima percezione di quanto si stava preparando. Per la società israeliana la vulnerabilità dei propri apparati militari e d’intelligence è stata la rivelazione psicologicamente forse più sconvolgente, un’onda d’urto che ha incrinato gravemente la fede della propria invincibilità e invulnerabilità.

All’effetto sorpresa e alla spettacolarizzazione dell’attacco che ha avuto subito una risonanza mondiale, Hamas ha combinato un’attenta pianificazione degli obiettivi. Posto che una vittoria militare sul campo di una formazione irregolare non era realisticamente possibile contro un potentissimo esercito dotato di aerei e carri armati, le finalità dell’operazione Alluvione di Al-Aqsa erano e sono essenzialmente politiche,

Le sanguinose incursioni negli insediamenti israeliani con l’uccisione di centinaia di civili, dietro l’apparente manifestazione di ferocia fuori controllo hanno perseguito il calcolato disegno d’inasprire la rappresaglia israeliana, così come la cattura di alcune centinaia di ostaggi è stata funzionale a conseguire un margine di trattativa per arrivare al momento opportuno a una soluzione più o meno negoziata. Per quanto cinico possa apparire questo calcolo, per Hamas nessun prezzo è troppo alto nella sua lotta all’ultimo sangue contro gli “occupanti sionisti”, dove la popolazione civile anche senza volerlo deve trovare il suo posto in prima linea. Khlil Al-Haya, membro del Politburo di Hamas, ha espresso chiaramente questo concetto: “questa battaglia non aveva lo scopo di migliorare la situazione a Gaza e Hamas non ha l’obiettivo di governare Gaza per fornirle acqua, elettricità, eccc…”, ma quello invece di trascinare Israele in un durissimo confronto militare, costi quel che costi.

Fin dai bombardamenti dei campi profughi nel Libano e nella Cisgiordania degli anni ‘70, Israele ha del resto sempre rivendicato e il “diritto di rappresaglia” come risposta agli attacchi palestinesi, secondo l’inesorabile logica della responsabilità collettiva che si estende anche alla popolazione civile. Se si aggiunge che Beniamin Netanyahu è il capo di governo più estremista e ostile ai palestinesi della storia dello stato ebraico, era facile immaginare l’operazione Spade di Ferro nella striscia di Gaza, si sarebbe trasformata principalmente in una “guerra contro i civili”,

Né Netanyahu, né gli esponenti del suo governo dopo il 7 ottobre hanno fatto ministero che il loro principale obiettivo era quello di radere al suolo Gaza, utilizzando toni a paragone dei quali Vladimir Putin rispetto agli ucraini appare come Madre Teresa di Calcutta. Per giustificare un approccio così radicale, il nemico deve essere “disumanizzato”, annullando la distinzione tra combattenti e non combattenti. Ogni singolo palestinese diventa quindi corresponsabile delle azioni di Hamas. Le parole del ministro della difesa Yoav Gallant sono state profetiche quando ha preannunciato un “assedio completo” nella striscia di Gaza, dove “non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante”, poiché “stiamo combattendo contro animali umani e agiremo di conseguenza”. E così è stato.

Da più di un mese gli aerei e gli elicotteri con la Stella di Davide spianano sistematicamente interi quartieri di Gaza provocando una crisi umanitaria senza precedenti e un numero spaventoso di vittime civili: al momento, il body count ha raggiunto gli 11 mila e 400 morti, per i due terzi donne e minori. Secondo dati dell’ONU, nel 2022 sono morti nei conflitti che insanguinano il mondo 2.985 bambini, a Gaza in un solo mese 4.700.

Se voleva vendicarsi, si può dire che Netanyhau abbia ampiamente centrato il suo scopo. Ma a che prezzo e soprattutto con quali conseguenze immediate e di prospettiva? Per quanti militanti di Hamas i soldati di Tsahal possono uccidere per le strade di Gaza, si può stare certi, come la storia ha già insegnato tante altre volte in passato, che lo spirito di vendetta finirà per moltiplicarli. Anche se il disegno di fare il repulisti di due milioni di palestinesi dalla Striscia è stato preso in considerazione dai governanti israeliani, così come quello di rioccupare militarmente la striscia, le truppe saranno costrette prima o poi a ritirarsi cedendo di nuovo il campo ad Hamas o a un altro movimento della “resistenza” palestinese, in attesa che la spirale di violenza riprenda presto o tardi il suo corso.

L’orrore in diretta diffuso quotidianamente dai media sta provocando un’ondata d’indignazione internazionale, che anche le più compiacenti versioni dei governi e dei media occidentali (“Israele ha diritto di difendersi”) non sono riuscite ad arginare. Le piazze di tutto il mondo si riempiono per condannare il quotidiano massacro che ogni giorno si ripete a Gaza, e che non risparmia ospedali nè istituzioni umanitarie. Tale è stata la sproporzione della reazione israeliana da aver declassato, se non fatto dimenticare del tutto, i sanguinosi attentati di Hamas del 7 ottobre.

Di fronte alla violenza incontrollata, comincia ora a vacillare anche l’incondizionato sostegno dei governi del “miliardo d’oro”, e pure comincia a notarsi l’imbarazzo degli stessi Stati Uniti, rimasti ormai da soli a sostenere a oltranza lo storico alleato. L’aver rimesso al centro del dibattito internazionale la “questione palestinese” è stato un altro obiettivo centrato da Hamas con i suoi attentati. Infatti, dopo anni di silenzio e d’indifferenza, ora i politici europei hanno cominciato a ripetere come un mantra la soluzione dei “due popoli e due stati”, anche se dopo un tale bagno di sangue occorreranno probabilmente anni se non decenni per renderla applicabile, se mai lo sarà.

Se poi dopo quasi due anni di guerra in Ucraina qualcuno aveva ancora dubbi sulla doppia morale dell’Occidente, il conflitto in Palestina sta contribuendo a fugarli definitivamente. Non a caso, i commenti più duri sull’intervento israeliano provengono, oltre che ovviamente dai paesi arabi nuovamente compattati a favore della Palestina, anche da numerosi paesi emergenti del sud del mondo, non più disposti a sottostare all’”ordine mondiale basato su regole”, dietro il quale si manifesta il dominio degli Stati Uniti e dei suoi alleati, liberi di applicare quelle regole e di abusarne come meglio si confà ai propri interessi.

Sarebbe tuttavia un errore attribuire le responsabilità di quanto sta avvenendo a Gaza esclusivamente a Netanyahu e al suo governo; per quanto sia contestato e anche disprezzato tra i suoi, è pur sempre stato democraticamente eletto dagli israeliani, così come sono stati democraticamente eletti tutti quei dirigenti politici, da Menachem Begin in poi, che hanno sempre e categoricamente sabotato una soluzione politica con i palestinesi. E forse, con la violenza senza precedenti che sta manifestando il suo esercito a Gaza, gli israeliani forse cominciano a percepire di aver definitivamente dissipato quel patrimonio di simpatia e di credibilità che dopo l’Olocausto gli aveva fruttato il diritto di creare un proprio stato. Da oppressi sono diventati lentamente, e forse senza neppure accorgersene, oppressori, facilitati in questo senz’altro dalla cecità e dall’estremismo dei paesi arabi e anche di molti movimenti palestinesi.

Il giornalista israeliano Gideon Levy ha ben sintetizzato questa attitudine diffusa nella società israeliane: “Molti se non tutti gli israeliani credono profondamente che noi siamo il popolo eletto. E se noi siamo il popolo eletto abbiamo il diritto di fare ciò che vogliamo”. Fino a quando?

Giovanni Fantozzi

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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