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Covid e guerra Ucraina: così i media sono diventati megafoni dell'unico Verbo

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Quello che è certo è che la guerra in Ucraina non è stata un fulmine a ciel sereno ma il prodotto di una crisi che si trascina da almeno otto anni


Covid e guerra Ucraina: così i media sono diventati megafoni dell'unico Verbo
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Il 24 febbraio sui mass media italiani la guerra al virus ha ceduto come per incanto il passo al conflitto in Ucraina. Con ben poche eccezioni, da un giorno all’altro il “terribile morbo” del 21 secolo che ha tenuto ossessivamente banco per due anni è scivolato nelle pagine interne dei giornali, quasi avesse esaurito da un giorno all’altro quasi tutto il suo potenziale distruttivo, per essere soppiantato dal nuovo e più terribile nemico Vladimir Putin, la cui mefistofelica volontà distruttiva minaccerebbe non solo l’incolpevole Ucraina ma anche l’intero mondo libero e tutti i suoi valori. Proseguendo sulla falsariga narrativa che tanto successo ha riscosso con il Covid, nel bersagliare il nuovo nemico non c’è stato neppure bisogno di particolari aggiustamenti: bordate della stessa retorica bellicista, stesso linguaggio manicheo ed emozionale, stessa approssimazione nel distinguere i fatti dalle opinioni, medesima intolleranza nei confronti di chi dissente.

Fotocopia l’uno dell’altro, con questa guerra sembra essersi completata la trasformazione dei media in megafoni dell’unica verità possibile, e dei giornalisti in soldati-propagandisti di un potere egemone che agita lo spettro del nemico assoluto e della paura per sventare ogni critica. Ridotto ormai alla funzione di riflesso pavloviano di questa vetrina mediatica, il governo italiano ha approvato all’unanimità, e senza alcun dibattito parlamentare, sanzioni contro la Russia e forniture di armi all’Ucraina. Come apoteosi di questa sinfonia bellica, è arrivato l’annuncio del ministro della difesa Guerini dell’aumento delle spese militari in bilancio da 25 a 38 miliardi di euro. Nessuno dei politici ha però avuto il coraggio di rivolgersi al popolo italiano per spiegare chiaramente quali pesanti conseguenze avranno tali decisioni sulle sue condizioni di vita, come se non bastassero già le devastazioni economiche inflitte in due anni di gestione della pandemia.

Per giustificare la propria esistenza la classe politica ha però trovato subito un argomento su cui accapigliarsi “drammaticamente” in parlamento: la riforma del catasto.

La danza quotidiana dei politici occidentali intorno al baratro assomiglia in modo impressionante a quella dell’estate del 1914, quando nel giro di un mese le potenze europee furono risucchiate nel primo conflitto mondiale quasi senza accorgersene. Imporre un blocco economico totale a un paese con il dichiarato obiettivo di strangolarlo economicamente è obiettivamente un atto di guerra, con conseguenze imprevedibili, per non parlare di forniture belliche a una delle parti in lotta o di no fly zone. Ed è stupefacente ascoltare con che leggerezza uomini di governo di ogni nazione, giornalisti ed esperti di strategia - che hanno prontamente spodestato dal palcoscenico della comunicazione virologi e scienziati - stanno ora sdoganando argomenti finora indicibili come la terza guerra mondiale e l’impiego di ordigni nucleari nel cuore dell’Europa.

La genesi del conflitto
L’invasione di un paese sovrano non può beninteso essere giustificata sul piano morale e di principio, ma se ciò vale oggi per la Russia, valeva allo stesso modo ieri per gli Stati Uniti e i suoi alleati al tempo dell’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Quel che è certo che la guerra non è stata un colpo di testa improvviso di Mad Vlad, spinto dalla vecchiaia, dalla malattia o semplicemente dalla follia. Le sue radici sono lontane e profonde e vanno ricercate in primo luogo nelle complesse vicende storiche e geopolitiche di un territorio che per secoli è stato teatro di scontro tra popoli e imperi e che ha raggiunto la propria identità statuale solo con la fine dell’Unione sovietica. Ma ciò che ha reso l’Ucraina il teatro ideale della grande guerra per procura che si sta ora combattendo hanno giocato una parte fondamentale il degrado economico e politico che questo paese ha conosciuto negli anni successivi alla sua indipendenza. Nonostante sia ricco di risorse energetiche minerarie e soprattutto agricole, conosciuto fin dal tempo degli zar come “il granaio d’Europa”, l’Ucraina è il paese più povero del continente: con 3.726 dollari nel 2021 il suo pil procapite è poco più della metà della Bielorussia del dittatore Lukashenko (6.411) e di un terzo della Russia di Putin (10.126); anche l’aspettativa di vita con 67,9 è all’ultimo posto del continente e al 124° del mondo, ai livelli delle Corea del Nord.

Nel determinare la bancarotta economica è stato essenziale il sistematico saccheggio delle risorse da parte di 70-80 famiglie di oligarchi che fino a pochi anni fa si accaparravano circa l’85 per cento del PIL ucraino e si contendevano il potere con metodi feudali. Le disastrose condizioni economiche, la bassa natalità e l’altissimo tasso di emigrazione hanno prodotto un drammatico impoverimento demografico: studi indipendenti stimano che sul territorio dell’Ucraina, anche a causa del distacco della Crimea e delle repubbliche separatiste filorusse di Lugansk e Donetsk, vivano oggi circa 35 milioni di persone a fronte degli oltre 50 milioni del 1991.

La cosiddetta rivoluzione di Euromaidan del 2014, fortemente sponsorizzata dagli Statuti Uniti in funzione antirussa, ha fatto balenare alla stremata società ucraina che la spirale del degrado si potesse invertire con l’adesione all’Unione europea e alla NATO. Questa troppo facile scorciatoia si è subito rivelata catastrofica per l’Ucraina. La saldatura tra una parte dell’oligarchia e i settori più estremi del nazionalismo ucraino – dal 2018 il parlamento ha dichiarato festa nazionale il giorno di nascita del leader filonazista Stepan Bandera – ha infranto il delicato equilibrio con la rilevante componente russa e filorussa del paese, scatenando la guerra civile nel Donbass e provocando l’occupazione della Crimea da parte della Russia. Una volta aperto, il vaso di Pandora del nazionalismo è sempre molto difficile da richiudere, e ciò vale a maggior ragione in quelle che sono state storicamente definite le “terre di sangue”. I protocolli di Minsk del 2015, che disegnavano lo status definitivo di Lugansk e Donetsk come territori autonomi dell’Ucraina, sono rimasti lettera morta per varie cause, ma soprattutto per l’illusione coltivata dall’Ucraina di poterseli riprendere con la forza. D’altronde, in questi anni gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno continuato ad armare ed addestrare l’esercito ucraino portandolo ad essere oggi, con i suoi 208 mila effettivi, il secondo in Europa dopo la Russia, forse illudendolo che sarebbe diventato il bastione della NATO all’est e che non sarebbe rimasto solo al momento decisivo, come invece puntualmente è avvenuto. Dal loro punto di vista, la Russia comunque pagherà un prezzo molto alto in questa guerra, pazienza se ad uscirne distrutta in questo war game sarà l’Ucraina. Da parte sua l’Unione europea è rimasta spettatore inerte della pericolosa deriva che si stava creando alle sue porte anche quando appariva chiaro che sarebbe stato il vecchio continente a pagarne le conseguenze più pesanti.

Sull’intervento russo si possono esprimere tutte le opinioni e tutte le condanne, che siano sincere o interessate, che importi davvero, come a noi, la morte di tante persone innocenti o solo il loro utilizzo propagandistico, come vediamo su tanti giornali. Quello che è certo è che la guerra in Ucraina non è stata un fulmine a ciel sereno ma il prodotto di una crisi che si trascina da almeno otto anni. Fino al 24 febbraio poteva essere disinnescata con una frazione della buona volontà che serve ora per risolvere una guerra distruttiva di cui le prime vittime, comunque vada a finire, saranno la povera Ucraina e il vecchio continente.

Giovanni Fantozzi - storico

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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