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Guerra in Ucraina, la propaganda della controffensiva

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Poche volte nella storia è accaduto che un esercito rivelasse con tanto anticipo e con tanta pubblicità le proprie intenzioni


Guerra in Ucraina, la propaganda della controffensiva
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Controffensiva sì, controffensiva no, controffensiva chissà… Da ormai tre mesi a Kiev sfogliano la margherita, alternando giorno dopo giorno proclami roboanti a improvvise frenate: l’attacco decisivo sul fronte del Donbass comincerà domani, dopodomani, fra una settimana, o forse è già in corso. Su Telegram è apparso un video con il capo delle forze armate Valeriy Zaluzhny che arringa i suoi soldati pronti alla battaglia: “E’ ora di riprenderci ciò che è nostro”. Una vera chicca per il circo dei media uggiolanti a ogni sospiro da Kiev, ma il segnale d’avanzata ancora non si vede.

Poche volte nella storia è accaduto che un esercito rivelasse con tanto anticipo e con tanta pubblicità le proprie intenzioni e i propri obiettivi e, soprattutto, che proclamasse la vittoria prima ancora di aver ingaggiato battaglia.

Quindici giorni orsono, davanti a un Bruno Vespa come sempre devotamente genuflesso, Zelensky ha sentenziato che “con la controffensiva presto saremo ai confini con la Crimea”. E quello che accadrà alla Crimea “liberata” lo ha preannunciato un altro “partigiano del mondo libero”, Kirill Budianov, capo dell’intelligence militare: tutti i simpatizzanti moscoviti che non fuggiranno in tempo saranno “liquidati” sul posto.

Il cincischiare degli ucraini sta rendendo nervosi gli americani, pressati quotidianamente dalle incessanti richieste di altri dollari e di nuove armi, come se l’esercito di Kiev non ne avesse finora ricevute abbastanza. In poco più di un anno gli alleati occidentali hanno stanziato ben 71 miliardi di dollari, e solo negli ultimi mesi per la tanto strombazzata offensiva sono stati consegnati 230 carri armati Leopard e Challenger, 1.600 veicoli corazzati, elicotteri, batterie di Patriot, fino agli ultimi missili da crociera inglesi Storm Shadow, con una gittata di 250 km.

La consegna degli Storm Shadow, ultima in ordine di tempo, è stata ancora una volta salutata come una “svolta” nel conflitto, la stessa magica parola che si era sentita per gli obici M777, gli Himars, e poi per i Leopard. Le armi “miracolose” non esistono, come si è visto per la batteria di Patriot centrata il 16 maggio da un missile ipersonico Kinzhal nel centro di Kiev: centinaia di milioni di dollari andati in fumo in pochi secondi.

Nel suo penoso peregrinare tra le capitali europee, Zelensky è riuscito da ultimo a strappare l’assenso alla consegna di qualche decina di aerei F16. Il capo di stato maggiore USA Mark Milley ha tuttavia espresso il suo scetticismo sulla loro effettiva utilità nell’attuale contesto bellico: “Dieci F16 costano un miliardo di dollari, a cui va aggiunto un altro miliardo per i costi di manutenzione: due miliardi di dollari per dieci aerei, quando i russi possiedono mille aerei di quarta e quinta generazione”.

Per gli americani l’Ucraina non deve insomma alzare sempre l’asticella delle richieste per spostare l’ora X dell’attacco. Il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale statunitense, John Kirby, è stato piuttosto esplicito: gli ucraini hanno ricevuto il “98% di quanto hanno chiesto per lanciare le operazioni offensive in primavera”, quindi non hanno motivi per ritardare ancora. Solo che, a questo punto, di rinvio in rinvio, non sarà più la controffensiva di primavera ma quella di mezza estate.

Dal febbraio 2022 gli USA e i suoi satelliti stanno spregiudicatamente giocando la loro partita contro la Russia sulla pelle degli ucraini, ma ora mostrano sempre più premura d’incassare qualche significativo dividendo che giustifichi i colossali investimenti. A maggior ragione dopo l’annuncio della sua ricandidatura alla presidenza degli Stati Uniti, Sleepy Joe non può permettersi di arrivare al prevedibile duello finale con Donald Trump con il buco nero ucraino che continua a divorare risorse senza fine e con la Russia ancora padrona del campo. Agli ucraini va data un’ultima chance di vincere sul terreno; poi, se falliranno, occorrerà pensare a una via d’uscita meno impresentabile della fuga da Kabul dell’agosto 2021.

Un anno fa Biden, con accoliti del calibro di Enrico Letta e con il codazzo di tutti i nostri giornaloni, aveva profetizzato che la vittoria sulla Russia sarebbe stata rapidamente raggiunta non con le armi ma per l’effetto risolutivo delle sanzioni: il regime putiniano sarebbe rapidamente imploso sotto le macerie del default economico e sociale. Quel vaticinio è stato sonoramente smentito: il PIL russo nel 2023 crescerà probabilmente di più di quello italiano, le riserve valutarie sono in aumento, l’inflazione è al 2%, il boom degli scambi economici con i paesi asiatici ha in buona parte compensato l’interruzione di quelli con l’occidente. Sull’orlo del default si sono venuti a trovare invece gli USA, gravati da 31,4 miliardi di dollari di debiti. Alla sorprendente resilienza dell’economia russa, fa da contraltare l’affanno di un’Europa oberata politicamente dalla propria sudditanza a Washington e dalla crisi strutturale dell’economia e del proprio modello di sviluppo. Siamo arrivati al paradosso che l’UE, per compiacere Washington, compra ogni mese, a prezzi maggiorati, 360 mila tonnellate di petrolio russo triangolato dall’India.

Dopo il cilecca dell’arma nucleare delle sanzioni, le speranze di una risolutiva disfatta di Putin vengono ora tutte riposte nella “madre di tutte le controffensive”. Quindi il regime di Kiev deve giocarsi il tutto per tutto in una rischiosissima mano a poker nelle pianure ucraine contro un nemico militarmente più forte, e che in questi mesi ha costruito solide linee di difesa. Sfondare la linea fronte e spingersi per molte decine, se non per centinaia, di chilometri nel territorio del Donbass tenuto dai russi è un obiettivo ragionevolmente non alla portata delle forze di Kiev. Tuttavia, prigioniera della propria stessa retorica suicida e dei diktat della NATO l’Ucraina è obbligata a provarci, anche se costerà la vita di molte altre decine di migliaia di soldati.

Rimpinzati in abbondanza di armi occidentali, gli ucraini cominciano a sentire gli effetti delle perdite spaventose di uomini subite fino ad ora e difficilmente rimediabili; dal febbraio 2022 la guerra ha ingoiato centinaia di migliaia di soldati tra morti e feriti, tra i quali moltissimi veterani che combattevano dal 2014. Si tratta di un vuoto incolmabile poichè ufficiali e graduati esperti non si creano con corsi accelerati di addestramento in qualche base NATO europea. A differenza dell’Ucraina, la Russia può permettersi una lunga guerra di attrito, conservando ancora un enorme potenziale umano a cui eventualmente attingere in futuro. E’ comprensibile a chiunque la difficoltà per un paese di 25 milioni di persone reggere uno scontro prolungato con uno di 145, a maggior ragione se quest’ultimo è anche una superpotenza nucleare.

Se volevano accumulare riserve in vista dell’attacco risolutivo e aumentare di qualche punto le loro possibilità di vittoria, gli ucraini avrebbero dovuto evitare accuratamente di farsi trascinare in scontri sanguinosi e logoranti come quelli che si sono succeduti a Bakhmut (Artemovsk) per oltre sette mesi”. La conquista della città, che non aveva di per sé alcuna importanza strategica, era stata pianificata da Yevgeny Prigozhin, capo della Wagner, insieme al “generale Armageddon” Sergey Surovikin al solo scopo di “macinare” nel “tritacarne di Bakhmut” le forze ucraine, approfittando della netta superiorità soprattutto nel fuoco d’artiglieria.

Resistere “fino all’ultimo uomo” in condizioni così sfavorevoli era semplicemente insensato e infatti il generale Zaluzhny aveva cercato invano d’imporsi su Zelensky per ritirare le truppe dalla città assediata su posizioni più difendibili e vantaggiose. L’ex clown diventato presidente, convinto davvero di essere un leader anche militare dagli adoranti politici occidentali, non ha voluto sentire ragione e ha ordinato la resistenza ad oltranza, annunciando che Bakhmut avrebbe rappresentato la svolta nella guerra. L’insensata decisione di fare della città una sua personale Stalingrado si è trasformata in un’ecatombe: il 20 maggio la città è infine caduta nelle mani della Wagner dopo 224 giorni di combattimenti, durante i quali gli ucraini avevano lasciato sul terreno circa 50 mila morti, senza contare i feriti, contro i circa 20 mila russi della Wagner.

Forse spinti da un soprassalto di realismo, o forse per mettere le mani avanti in caso di fallimento della controffensiva, ultimamente i vertici militari americani hanno più volte fatto trapelare qualche dubbio sulla possibilità di una rapida vittoria ucraina; il generale Milley ha messo in forse che l’Ucraina possa riconquistare con le armi i territori perduti, e Christopher Cavoli, comandante delle truppe statunitensi in Europa, ha dovuto ammettere che la Russia “sta oggi vincendo in Ucraina e che il degrado delle forze armate russe è stato largamente esagerato dai media”. Il presidente polacco Andrzej Duda, in lista per la nomination a “russofobo dell’anno”, si è lasciato sfuggire che “Putin non ha mai perso finora una sola guerra”. Ed è assai difficile, aggiungiamo noi, che possa perdere la proprio quella ingaggiata con un occidente al suo tramonto.

Giovanni Fantozzi

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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