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La vera paura di Zelensky? Che si incrini il fronte dei suoi sponsor

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Per fare precipitare improvvisamente l’Ucraina nel caos i russi non hanno avuto neppure bisogno di mettere in campo uno solo dei soldati mobilitati


La vera paura di Zelensky? Che si incrini il fronte dei suoi sponsor
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Lo stato d’animo della gente di Kiev di qualche giorno fa era bene esemplificato dagli allegri selfie che giovani e famigliole si facevano con alle spalle una gigantografia che raffigurava l’esplosione del ponte di Cherch in Crimea. Dopo la crisi di febbraio-marzo, la guerra si era allontanata dalla capitale e dalle altre città dell’Ucraina occidentale e gradualmente la vita quotidiana era tornata quasi alla normalità. Dopo tempi difficili, erano cominciate ad arrivare buone notizie dal fronte lontano, ormai da più un mese l’esercito ucraino stava avanzando e respingendo i russi, l’odiato gasdotto Nord Stream era stato provvidenzialmente messo fuori uso da mani amiche e infine anche il ponte di Cherch, uno dei simboli dell’arroganza moscovita, era stato fatto saltare. Tanto era bastato a ai media nazionali e occidentali per descrivere Putin come un pugile ormai groggy, molle sulle gambe dopo i tanti colpi ricevuti, senza più armi, con l’esercito allo sbando, ormai talmente disperato da minacciare l’Armageddon nucleare.

I ripetuti avvertimenti da Mosca al governo ucraino sulle linee rosse da non oltrepassare e sulle gravi conseguenze che avrebbero provocato attacchi alle infrastrutture strategiche della federazione russa suonavano come minacce a vanvera di chi sente franare il terreno sotto i piedi. Il sole ottobrino di Kiev ispirava presagi di una vittoria non troppo lontana. 

L’euforia dei tanti che solo la sera prima irridevano il nemico in un’atmosfera da luna park si improvvisamente dissolta nella mattina del 10 ottobre al suono delle sirene antiaeree che preannunciavano una pioggia di missili in arrivo. In poche ore, gran parte del paese si è trovata al buio, con treni e metropolitane fermi, internet assente.

Per fare precipitare improvvisamente l’Ucraina nel caos i russi non hanno avuto neppure bisogno di mettere in campo uno solo dei soldati mobilitati da qualche settimana, gli è bastato un centinaio di missili ben indirizzati, quei missili che secondo gli esperti della NATO dovevano aver già esaurito da un pezzo.

L’attacco è stato ripetuto il giorno successivo paralizzando non solo la vita quotidiana, ma anche i centri di comando e controllo, gli snodi logistici e ferroviari indispensabili a trasferire armi e uomini al fronte.

Secondo le fonti ucraine, tutti quei colpi caduti in gran parte in ambienti urbani hanno provocato meno di venti morti, il che rappresenta un’implicita conferma dell’estrema precisione delle armi nel colpire i bersagli e anche della volontà di limitare il numero delle vittime civili. Per avere un termine di paragone, due giorni di bombardamenti russi hanno provocato lo stesso bilancio di morti dei razzi ucraini che hanno colpito il centro di Donetsk lo scorso 19 settembre.

Circa il 30 per cento delle centrali elettriche del paese è stato gravemente danneggiato, tuttavia il loro ripristino potrebbe essere effettuato in tempi relativamente brevi, anche perché l’Ucraina possiede una notevole capacità di produzione elettrica che gli proviene dal nucleare. Se le infrastrutture energetiche dovessero però essere colpite sistematicamente la riparazione diventerebbe impossibile e le conseguenze si rivelerebbero catastrofiche non solo per la popolazione civile in prossimità dell’inverno ma anche per l’economia e lo stesso sforzo bellico.

Con questi attacchi i russi hanno fatto chiaramente intendere a quelli che li davano già per spacciati che se davvero volessero potrebbero portare in pochi giorni l’Ucraina a una situazione invivibile totalmente senza elettricità. Appare invece non ancora chiaro se intendano imboccare con decisione la strada dell’escalation o se invece si siano limitati a una risposta più o meno circoscritta all’attentato al ponte di Cherch. Finora Putin ha sempre cercato di evitare, nonostante le pressanti richieste che provenivano dall’opinione pubblica interna e da molti dei suoi generali, un allargamento del conflitto. Per quanto a molti possa sembrare paradossale, il presidente russo ha sempre esercitato un attento controllo sulle dinamiche della guerra per mantenere una porta aperta alla soluzione negoziata. Ha ordinato con molto ritardo la mobilitazione dei riservisti e solo dopo che gli ucraini erano passati all’offensiva con un numero soverchiante di soldati; allo stesso modo, ha atteso diversi mesi prima di dare il via libera agli attacchi alle infrastrutture ucraine.

D’altra parte, da tempo l’interlocutore del Cremlino non sono Zelensky né l’attuale regime ultranazionalista di Kiev, che hanno puntato tutte le loro carte sulla rovinosa sconfitta militare della Russia e che stanno sistematicamente sabotando ogni spiraglio di trattativa. Per manifestare in modo ancor più teatrale i suoi propositi, Zelensky nei giorni scorsi ha firmato un decreto che proibisce a lui stesso di aprire negoziati con i russi; e per fare capire fino a che punto sia disposto a spingersi nella sua folle corsa ha chiesto apertamente alla NATO un attacco nucleare preventivo contro la Russia. Questi sgangherati coup de theatre sono lo specchio della logica oltranzista del gruppo dirigente di Kiev, la cui stessa sopravvivenza politica verrebbe messa a repentaglio dall’apertura di negoziati con il nemico. Kiev nutre il timore  che il fronte dei suoi sponsor si incrini a causa delle crescenti difficoltà interne e degli enormi sacrifici che la guerra in Ucraina impone e che una pace di compromesso gli possa venire imposta in un modo o in un altro. Per questo Zelenski e i suoi non esitano a ricorrere a qualsiasi mezzo, compreso il terrorismo, al fine di provocare una reazione russa tanto dura da annullare ogni margine negoziale con gli alleati occidentali. L’omicidio di Darya Dugina, i bombardamenti terroristici della centrale nucleare di Energodar e dei centri di Lugansk e di Donetsk, fino all’attentato al ponte di Cherch sono mirati soprattutto questo scopo.

Da politico calcolatore e razionale qual è, Putin ha cercato fin qui di percorrere un sentiero molto stretto tra due esigenze opposte: quella di alimentare lo sforzo bellico per reggere la sfida con la NATO e quella di mantenere aperto uno spiraglio di dialogo con l’occidente collettivo, puntando molto sul fatto che prima o poi la crisi economica e sociale presenterà il conto e incrinerà la compattezza del fronte antirusso.

In Europa nei prossimi mesi si verificheranno senz’altro forti proteste in conseguenza del progredire della crisi economica ed energetica, tuttavia ora è difficile ipotizzare che riusciranno a fermare in tempi ragionevoli la vocazione suicidiaria delle élite europee; inoltre, in questi mesi l’UE ha dato prove tanto imbarazzanti della propria subordinazione alla politica imperiale americana da rendere assai improbabile un’iniziativa politica autonoma sulla revoca o sull’allentamento delle sanzioni alla Russia e nemmeno sullo stop all’invio di armi in Ucraina.

I sentieri della pace possibile non passano dunque né da Kiev né da Bruxelles ma esclusivamente dai masters of war che stanno a Washington. Per anni hanno armato e sostenuto l’Ucraina e in questi mesi la guerra si è rivelata per loro un buon affare geopolitico ed economico: con un modesto investimento del proprio bilancio militare e senza dover mettere in campo un solo reparto di soldati sono riusciti in un colpo solo ad ingaggiare la Russia in un sanguinoso conflitto e a indebolire economicamente l’Europa. Sono persino riusciti impunemente a sabotare il gasdotto Nord Stream per vendere a carissimo prezzo ai valvassini europei il loro costosissimo gas liquefatto. Il segretario americano Antony Blinken ha avuto pure la faccia tosta di affermare che l’esplosione dei gasdotti russi rappresenta per l’Europa “un’eccezionale opportunità strategica per terminare la dipendenza energetica dalla Russia”.

Passo dopo passo gli americani hanno assecondato l’escalation del conflitto fornendo a Kiev supporto economico e armamenti sempre più sofisticati fino ad assumere il controllo strategico delle operazioni e di fatto delle principali leve dello stato. Senza di loro, il puppet state ucraino si affloscerebbe rapidamente, più o meno come è accaduto al governo afghano nell’agosto del 2021, dopodichè Zelenski verrebbe a godersi un dorato esilio nella sua villa milionaria a Forte dei Marmi. Il coinvolgimento sempre più diretto nella guerra rischia però di trascinare gli USA in uno scontro sempre più diretto Russia, senza peraltro avere chiaro l’obiettivo da raggiungere: la sconfitta militare sul campo o addirittura la disintegrazione della Russia? La sua rovina economica? La caduta di Putin attraverso una rivolta popolare o di palazzo?

Appare piuttosto evidente che questi sono tutti scenari estremamente difficili e pericolosi da perseguire perché trascinerebbero rapidamente il mondo nella terza guerra mondiale e forse anche in una conflagrazione atomica, di cui peraltro oggi tutti cianciano con incredibile leggerezza. Su queste prospettive lo sterminato deep state americano sembra abbastanza diviso. Se una parte sembra lavorare alacremente all’Armageddon, altri settori sono propensi a cercare una via d’uscita realistica attraverso il negoziato. D’altronde, anche se ciò appare poco visibile all’esterno, i contatti sotterranei tra i russi e americani non sono mai venuti meno. Un segnale indicativo di questo lavoro diplomatico è stato lo scambio di prigionieri, mediato da Erdogan, che ha compreso anche i vertici del famigerato reggimento ucraino Azov ed è costato non poco in termini di consenso interno ai vertici russi; molto significativa è stata anche l’uscita pubblica di Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, che ha proposto come piattaforma negoziale il passaggio definitivo della Crimea alla Russia e la ripetizione sotto l’egida internazionale dei referendum nel Donbass. L’idea è stata naturalmente respinta come una bestemmia dagli ucraini, ma forse non a caso il sistema satellitare Starlink di Musk, su cui passa una parte significativa delle informazioni di intelligence ucraine, si è misteriosamente spento per un giorno intero.

In questo scenario il maggiore fattore di debolezza della posizione americana è rappresentato dalla fragilità dell’amministrazione Biden. Le prossime elezioni di mid term in cui sono favoriti i candidati del partito repubblicano potrebbero avere importanti conseguenze anche sulla guerra in Ucraina. Molti parlamentari repubblicani si sono opposti agli enormi stanziamenti a favore dell’Ucraina e l’ex presidente Donald Trump ha recentemente chiesto “negoziati immediati” con la Russia per mettere fine al conflitto. Gli umori degli elettori avranno dunque un peso per indirizzare le prossime scelte di un presidente che è sempre apparso subire gli eventi e mai dominarli.

E’ dunque improbabile che almeno fino ad allora Biden autorizzerà la fornitura di razzi Himars con una partata di 300 km, con i quali gli ucraini sarebbero in grado di colpire molte città russe. Mosca ha fatto già sapere di considerare questa una linea rossa passata la quale considereranno gli USA “parte diretta del conflitto”.

Giovanni Fantozzi

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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