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Quei Missili in Polonia e il confine che ci separa dalla Guerra totale

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Putin appare più forte di prima sul fronte interno e le sanzioni stanno facendo molto più male all’occidente che all’economia russa


Quei Missili in Polonia e il confine che ci separa dalla Guerra totale
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I missili caduti il 15 novembre scorso a Przewodów in territorio polacco a pochi chilometri dal confine con l’Ucraina hanno innescato una rapidissima escalation fino a evocare lo spettro di una deflagrazione bellica tra NATO e Russia. L’orologio della storia è sembrato improvvisamente tornare indietro di sessant’anni, al tempo della crisi dei missili di Cuba che portò Stati Uniti e Russia a un passo dallo scontro diretto. Nell’ottobre del 1962, per due settimane, il mondo rimase letteralmente col fiato sospeso per un conflitto che sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro tra le due superpotenze e che fu fortunatamente scongiurato in extremis; stavolta l’allarme rosso è durato solo un giorno e la crisi è scivolata rapidamente via nell’indifferenza delle classi dirigenti occidentali e di un’opinione pubblica sempre più manipolata e indifferente.

A giudicare dalla linea adottata dai media mainstream sembra che la spada di Damocle della terza guerra mondiale che incombe sul mondo sia diventata, in fondo, un’opzione accettabile e che le vere priorità in agenda siano altre, come la Conferenza sui cambiamenti climatici (Cop 27) o come i bracciali One Love LGBTQ che i calciatori dovevano disciplinatamente indossare sui campi di calcio in Qatar.

L’incidente di Przewodów ha dimostrato quanto possa essere sottile il confine che separa il conflitto russo-ucraino dalla guerra totale, e come ci siano forze all’opera per trovare un casus belli e scatenare l’Apocalisse. Se la miccia della conflagrazione è stata questa volta disinnescata lo si deve al deciso intervento degli Stati Uniti, che hanno così ribadito di essere disposti a sostenere l’Ucraina fino all’ultima goccia del suo sangue ma di non avere alcuna intenzione di farsi trascinare in uno scontro aperto con la Russia.

La sequenza degli eventi di quelle ore e le reazioni dei protagonisti fa capire non solo quanto sia gravida di rischi l’atmosfera ma anche quali sono stati e quali saranno i ruoli in commedia (o in tragedia) nella rappresentazione che, stantibus sic rebus, prevedibilmente si ripeterà tra non molto. Nella serata del 15 novembre, a brevissima distanza di tempo dall’esplosione di due missili e che avevano provocato la morte di due agricoltori, senza neppure attendere informazioni circostanziate sull’accaduto e nel presupposto che, ipso facto, i missili fossero russi, il ministro degli affari esteri polacco, Zbigniew Rau, convocava l’ambasciatore della Federazione russa chiedendogli “immediate spiegazioni dettagliate”.

A stretto giro interveniva il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky che in una telefonata al presidente polacco Andrzej Duda non si lasciava sfuggire l’occasione di attaccare con violenza la Russia: “l’Ucraina, la Polonia, tutta l'Europa e il mondo devono essere protetti a pieno dalla Russia terrorista”. Il ministro degli esteri Dmytro Kuleba chiedeva una No-Fly zone sui cieli dell’Ucraina e la fornitura a Kiev di caccia occidentali, in altri termini pretendeva una dichiarazione di guerra alla federazione russa. A rincarare la dose, poco dopo si registravano i commenti dei dirigenti di Lettonia ed Estonia, che con la Polonia condividono le posizioni più violentemente russofobe all’interno della NATO; il ministro della difesa lettone Artis Pabriks affermava che “il regime criminale russo ha sparato missili non solo contro i civili ucraini ma ha anche colpito il territorio della Nato in Polonia”. Il ministero degli esteri estone in un tweet teneva a ribadire che “l’Estonia è pronta a difendere ogni centimetro di territorio Nato, siamo pienamente solidali con i nostri stretti alleati polacchi”.

Nessuna indagine, nessun riscontro probatorio sulla paternità dei missili, ma l’escalation sembrava inarrestabile e la via del conflitto della NATO con la Russia già tracciata. Nella tarda serata, la Polonia attivava le procedure previste dall’articolo 4 del trattato NATO, chiedendo una riunione d’emergenza degli ambasciatori dell’Alleanza atlantica a Bruxelles per il giorno successivo, 16 novembre. Nella ridda di commenti infuocati che invocavano rappresaglie immediate contro il Cremlino non poteva mancare Carlo Calenda, il dottor Stranamore de noantri: “La follia russa generata dalle pesanti sconfitte continua. Siamo con la Polonia, con l’Ucraina e con la Nato. […] La Russia deve trovare davanti a sè un fronte compatto. I dittatori non si fermano con le carezze e gli appelli alla pace”.

In questo delirio bellicista nessuna importanza poteva avere il comunicato ufficiale del governo russo che escludeva ogni responsabilità: “Le dichiarazioni dei media e dei funzionari polacchi sulla presunta caduta di missili russi nell'area dell'insediamento di Przewodów sono una deliberata provocazione al fine di aggravare la situazione. Non sono stati effettuati attacchi contro obiettivi vicino al confine polacco-ucraino con mezzi di distruzione russi”.

I russi avevano ragione e per capirlo sarebbe bastato attendere le prime verifiche sui resti dell’ordigno. Infatti, il sommario esame dei detriti sparsi sul terreno lasciava spazio a pochi dubbi: si trattava di un missile contraereo S-300, e pertanto, a causa del suo ridotto raggio operativo, non poteva provenire dalla federazione russa distante molte centinaia di chilometri ma solo dal limitrofo territorio ucraino. Attribuirne la responsabilità ai russi appariva una missione molto difficile, ma non impossibile per la collaudata macchina della disinformazione NATO, come si era già visto in occasione del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream. Questa volta però gli americani intervenivano rapidamente e con decisione per impedire che la situazione sfuggisse di mano sulla base di una false flag imbastita dagli ucraini. A tarda notte, il presidente americano Biden, da Bali dove era ospite per il G20, dichiarava lapidario di ritenere “improbabile” che il missile fosse russo.

Allo schioccare di dita degli Stati Uniti, tutti gli alleati dell’Alleanza atlantica, anche quelli più bellicosi, si allineavano prontamente smorzando le polemiche. Il presidente Duda, illuminato improvvisamente sulla via di Damasco, ammetteva che la colpa non era dei russi, e che si era probabilmente trattato di “un incidente sfortunato, un missile della contraerea ucraina che ha sbagliato rotta”.

Se erano stati gli ucraini a provocare l’incidente, occorreva trovare una versione che salvasse loro la faccia, sorvolando allegramente sul fatto che erano anche recidivi: nel marzo scorso un altro razzo ucraino S-300 aveva abbattuto un Mig-21 rumeno sul Mar Nero e nel bilancio delle vittime, oltre al pilota, si erano aggiunti i sette componenti dell’elicottero di soccorso AR-330 precipitato in mare durante le operazioni di soccorso.

Nella mattinata del 16 novembre, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, al termine della riunione straordinaria del Consiglio atlantico dedicata alla crisi, chiudeva definitivamente il caso stabilendo che il missile era sì ucraino, ma che Kiev non aveva colpe perché la vera responsabilità andava ricercata nella “guerra di Vladimir Putin”. Secondo questa disinvolta e strumentale tesi i crimini di guerra andrebbero messi in conto non a chi li ha commessi ma solo alla parte che ha scatenato il conflitto. Al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che anche in questa circostanza ha dato brillante sfoggio del suo nuovo look da convertita all’oltranzismo atlantista, andrebbe però spiegato che, in tal modo, i massacri delle foibe non devono essere attribuiti ai partigiani titini bensì al solo Mussolini.

Gli USA si attendevano che questa versione edulcorata e compiacente fosse più che accettabile anche per Kiev, ma non avevano fatto i conti con Zelensky e Kuleba, i quali, pur sapendo benissimo di essere stati colti con le mani nella marmellata, per alcuni giorni hanno continuato a mentire spudoratamente e ad attribuire la paternità dei missili ai russi. Abituati a veder contrabbandata tutta la loro propaganda come verità sui media occidentali pensavano di poterci riuscire anche stavolta. L’ostinazione con cui hanno continuato a negare anche l’evidenza ha suscitato il più legittimo sospetto che quei missili fossero stati spediti oltreconfine di proposito, con il preciso obiettivo di forzare la mano alla NATO e allargare il conflitto, e al tempo stesso sgominare ogni ipotesi di compromesso.

Stavolta però l’effetto si è rivelato controproducente, anzi un vero e propri boomerang e tra Biden e Zelensky è calato il gelo; gli Stati Uniti hanno ribadito seccamente di essere disposti a continuare a fornire soldi e armi per spremere dagli ucraini fino all’ultima goccia del loro sangue ma non a versare quello americano. Il ventriloquo della Casa Bianca Stoltenberg lo ha detto chiaramente nella conferenza stampa al termine del consiglio dell’Allenanza: è inutile che gli ucraini invochino l’intervento diretto della NATO perché non l’otterranno mai, sono obbligati a combattere perché in caso di sconfitta il loro paese cesserebbe “di esistere come nazione indipendente”. Il segretario della NATO ha mandato un altro messaggio esplicito degli americani alla dirigenza di Kiev: se fino non molto tempo fa ripeteva come un mantra la fiducia incrollabile di una completa vittoria dell’esercito ucraino, ora ha definito “molto probabile” che la “guerra finirà al tavolo negoziale”; in questa prospettiva, l’aiuto militare occidentale è diretto non a ottenere la sconfitta della Russia ma a “massimizzare le possibilità di avere una soluzione negoziata a condizioni favorevoli per l’Ucraina”.

L’establishment americano, o almeno una parte significativa di esso, sembra aver realizzato che la soluzione della guerra non verrà dal campo di battaglia, e che anzi sui tempi lunghi l’Ucraina rischia di non reggere alla pressione russa. Il regime change al Cremlino non c’è stato, anzi Putin appare più forte di prima sul fronte interno, le sanzioni stanno facendo molto più male all’occidente che all’economia russa, gli arsenali di Mosca sono ancora molto ben riforniti, come dimostrano i quotidiani strike sulle infrastrutture energetiche ucraine, e in primavera, con l’arrivo al fronte di alcune centinaia di migliaia di riservisti russi, i rapporti di forza sul terreno inevitabilmente si invertiranno.

Non del tutto a torto, qualcuno ipotizza che la ritirata russa dal territorio di Kharkov in settembre, e soprattutto quella da Kherson di qualche settimana fa, siano state in parte frutto di un calcolo politico-strategico del Cremlino e che siano state in qualche modo concordate con gli Stati Uniti per agevolare una soluzione negoziata. E’ comunque un dato di fatto che subito dopo il ritiro russo sulla sponda sinistra del Dnepr, il generale Mark Milley, massima autorità militare statunitense in qualità di capo del comando congiunto degli stati maggiori dell’esercito, abbia dichiarato che “probabilmente una vittoria nel vero senso della parola può non essere raggiungibile con mezzi militari ed è quindi necessario trovare altri mezzi”, ossia intavolare negoziati di pace. Il presidente Biden è stato in proposito solo più sfumato: se la prevedibile pausa invernale dei combattimenti “come minimo, porterà tutti a ricalibrare le proprie posizioni”, resta tuttavia “da vedere se l’Ucraina è pronta a scendere a compromessi con la Russia”. Nell’orientamento americano favorevole a una tregua invernale e all’apertura di trattative gioca in misura determinante l’insofferenza crescente della guerra da parte delle opinioni pubbliche occidentali, alle prese con una crisi energetica ed economica senza precedenti, e la necessità di trovare compromessi con la nuova maggioranza repubblicana al congresso, piuttosto restia alla politica degli assegni in bianco a Kiev.

I ripetuti consigli a Zelensky di sedersi a un tavolo insieme ai russi, se non altro come dimostrazione di buona volontà, sono finora caduti nel vuoto ed è prevedibile che lo saranno nel prossimo futuro. Per risultare più persuasivi gli americani hanno cominciato a lanciare anche qualche avvertimento, dichiarando, per esempio, che stanno esaurendo le scorte di munizioni e che quindi nel prossimo futuro saranno costretti a diminuire le forniture.

L’attuale dirigenza ucraina non è disposta a nessun compromesso semplicemente perché non vuole e neppure può farlo: dal 2014 ha costruito tutta la propria legittimazione sulla crociata contro la Russia e negoziare ora un compromesso che, anche alle condizioni più favorevoli, comporterebbe comunque pesanti sacrifici territoriali, significherebbe decretare la propria fine. Per Zelensky e soci solo con la guerra c’è speranza e c’è da stare sicuri che faranno di tutto per vendere cara la pelle, magari giocando di sponda di qualche paese che odia i russi quasi quanto loro, come polacchi e baltici. In attesa che si ripresenti qualche altro buon pretesto per spingere il mondo verso l’abisso della guerra, hanno intanto ricominciato a bombardare la centrale nucleare di Energodar (Zaporozhye) occupata dai russi.

Giovanni Fantozzi

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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