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L'homo laborans e le politiche di sostegno al reddito: il Rei

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L'incapacità dello Stato di esercitare una funzione redistributiva del reddito fa del Welfare una certificazione del presente e non uno strumento di giustizia


L'homo laborans e le politiche di sostegno al reddito: il Rei
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In questo week end ho dato un’occhiata a tre libri. “Contro la povertà” di Ranci Ortigosa, “Vivere la democrazia” di Stefano Rodotà e “La rivolta delle èlite” di Cristopher Lasch .

Libricini che apparentemente hanno poco in comune. In realtà c’è un sottile filo rosso che li lega.

Scritto a distanza di pochi anni dalla caduta del muro di Berlino il libro di Cristopher Lash ci descrive sociologicamente il lato oscuro del cosmopolitismo. “Invece di contribuire ai servizi sociali le nuove elite finanziano le enclavi in cui si sono autorinchiuse” , tuona con piglio severo.

La crisi degli Stati Nazionali e con essi quella delle classi medie, ripropone di fatto uno schema aristocratico della società che sembra riemergere dai tempi delle polis greche, dove un numero ristretto di abitanti avevano la cittadinanza, le armi, i capitali e tutto il potere.

Come l’industralizzazione avrebbe promosso quella divisione tra lavoro salariato e classe colta, così l’epoca del capitalismo finanziario, il finanz-capitalismo, per dirla alla Gallino, avrebbe concentrato in una classe di specialisti professionali la funzione educatrice e quindi dirigente, riproponendo temi come la teoria della soglia di povertà di Lincoln. Il regno degli specialisti come negazione della terra promessa per ogni componente della comunità.

La domanda però che si pone Lasch è un’altra. Come, in questo contesto, la democrazia possa sopravvivere, ma soprattutto come possa giustificare se stessa in assenza di standard comuni fondativi. Eppure, in molte parti della nostra società, la speranza di un sistema di valori capace di trascendere i particolarismi non è più condivisa come elemento essenziale di coesistenza di contesti sociali.

La fede nel progresso e nello stato nazionale liberale sono da tempo in crisi, invasi da un mercato sempre più forte e da uno Stato sempre più debole in cui il ricorso al pubblico assume il sapore di una restaurazione più che di un progresso.

Alla fine l’incapacità dello Stato di esercitare una funzione redistributiva del reddito fa del Welfare una certificazione del presente, piuttosto che uno strumento di giustizia sociale. Insomma manca un approccio fondativo del patto sociale basato su parametri in grado di rivitalizzare la linfa alla base della società moderna.

Ma ecco che proprio quando dalla lettura di Lasch tutto sembra finito, riemerge forte il grido di Rodotà nel saggio chiamato “la rivoluzione della dignità”. Saggio che insieme ad altri anima il libro “Vivere la democrazia”. Non è un richiamo peregrino. Secondo Rodotà oggi più che mai in tutto il mondo gli uomini più che il denaro vogliono che venga loro riconosciuto il loro diritto ad essere soggetti. Per vivere occorre una dignità e quindi una identità, scrive Primo Levi. Rodotà ripercorre così il cammino costituzionale della dignità che a livello europeo approda soltanto nel 2000 con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sebbene la Costituzione Tedesca fin dal 1949 abbia aperto il testo costituzionale con il dovere intangibile dello Stato di proteggere e rispettare la dignità umana. Ma anche la Costituzione Italiana fa la sua parte quando all’art. 3 iconosce pari dignità sociale a tutti gli uomini. Eppure, nonostante queste autorevoli dichiarazioni, la realtà va in direzione diametralmente opposta, quasi come se queste Dichiarazioni o Costituzioni fossero più un monito o un contropotere etico che non un impegno dello Stato verso il cittadino.

Rodotà allora si chiede se la dignità non sia un fondamento troppo fragile di fronte alle tante sfide che l’attuale tempo storico impone. Per quanto si possa argomentare in termini giuridici anche di alto livello alla fine non è più la giuridicità a dare il La al cambiamento ma semmai la capacità motivazionale della gente all’interno di un contesto in cui fasce sempre più ampie della popolazione hanno difficoltà economiche e lavorative. Ma soprattutto hanno una vita sociale povera. Fatta di molte app, ma anche di tanta solitudine.

La domanda allora è se il lavoro sia solo un affare di mercato o abbia anche una rilevanza sul piano della cittadinanza sociale. E’ cioè se l’uomo sia un semplice animal laborans come Hanna Harendt definiva chi lavora con il semplice obiettivo di sopravvivere o se il lavoro debba assurgere a valore cosmopolita che colloca l’uomo nella sfera della cittadinanza sociale. Questa distinzione non ha un valore disquisitivo soltanto filosofico ma è la bisettrice dalla quale partono due concezioni diametralmente opposte del Welfare come semplice attività assistenziale per garantire la mera sopravvivenza da un lato, oppure se esso debba assumere un significato atto a garantire l’essere cittadini all’interno di una comunità.

Quali sono allora le normative che sono state applicate in Italia per venire incontro al bisogno di Welfare ?

Prezioso è stato il libro di Emanuele Ranci Ortigosa “Contro la povertà” che riporta in maniera puntuale le tappe che hanno portato all’attuale REI il reddito di inclusione. E’ il governo Prodi con la finanziaria del 1998 e successivo decreto lgs 237/98, ad un anno dal rapporto della Commissione presieduta da Onofri sul minimo vitale, che prevede l’introduzione e la sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento come “misura di contrasto della povertà e della esclusione sociale”. La sperimentazione riguarda inizialmente 39 comuni nel biennio 1999-2000, successivamente estesa ad altri 267 comuni. La legge quadro 328 del 2000 però non istituzionalizza il RMI ma si limita a prevederne la generalizzazione a tutto il territorio nazionale con un nuovo atto normativo nell’ambito di una revisione complessiva del sistema di interventi di sostegno al reddito ( art. 23) e di riordino delle misure assistenziali ( art. 24) Ma in realtà la revisione complessiva del sistema di interventi di sostegno del reddito dovrà attendere il 2012 allorquando il Governo Monti con il decreto semplifica Italia riprende la misura del Reddito minimo di inserimento per famiglie di disoccupati e precari con figli minori e Isee sotto i 3000 euro e la collega a progetti di inserimento sociale e lavorativo. La sperimentazione, che riprende quella della Rmi, dura un anno e coinvolge solo i 12 comuni maggiori, ma essa ha il pregio di ricollegarsi direttamente alla strategia EU 2020. Un programma UE che prevede un impegno per tutti i paesi UE di combattere la povertà .

Nel settembre del 2013 l’Irs (Area politiche e servizi sociali e sanitari) e la rivista Prospettive Sociali e Sanitarie in collaborazione con il Capp - Dipartimento di Economia Marco Biagi, dell’Università di Modena e Reggio, presentano in un convegno a Milano, “Costruiamo il Welfare di domani”, una proposta di riforma dell’intero sistema assistenziale di cui il RMI è parte essenziale. A livello istituzionale il Ministro Giovannini istituisce una Commissione composta dai maggiori esperti sulle Politiche di contrasto della povertà presieduta dal sottosegretario Prof.ssa Cecilia Guerra. incaricata in pochi mesi di definire una proposta per l’istituzione del Reddito minimo nazionale che viene rapidamente predisposta.

Successivamente la legge di stabilità del 2016 finanzia una delega al governo per la riforma delle politiche di contrasto alla povertà. Immediatamente dopo l’approvazione, nel gennaio 2016 il governo approva un disegno di legge che istituisce il fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale nell’ambito di un piano nazionale contro la povertà con una dotazione di 750 milioni di euro. L’impostazione è quella del reddito minimo di inserimento anche se con molti limiti. Le linee guida già approvate dalla Conferenza unificata Stato-regioni-Comuni nel febbraio 2016 offrono anche indicazioni sul processo operativo.

Nel marzo 2017 si conclude l’iter di approvazione della legge delega collegata alla legge di stabilità 2016 ed affida al governo il compito di approvare norme relative al contrasto alla povertà e di riordinare le misure vigenti. Un mese dopo viene siglato un memorandum d’Intesa tra il Governo e l’Alleanza contro la povertà per l’attuazione della legge 15 marzo 2017 n.33, che costituisce un’assoluta novità nei rapporti tra governo e organizzazioni sociali nel nostro paese . Esso tocca i criteri di accesso e l’entità del beneficio economico.

Nel settembre 2017 con l’approvazione del dlgs n. 147 di attuazione delle legge delega viene istituito il Rei.

Eppure, nonostante questo enorme sforzo sia da parte del governo che da parte dei servizi sociali, il Rei non ha accusato quella diffusione e sviluppo che nelle proiezioni di massima erano auspicabili. Purtuttavia è stata segnata una via che dimostra come misure di sostegno del reddito possano essere battute purchè inserite in una strategia complessiva e non lasciate a sé come mero sostegno economico.

Insomma il REI è già una misura di sostegno dei redditi troppo bassi o per coloro che non hanno un’attività lavorativa. Resta da capire quale debba essere l’area cui rivolgersi e soprattutto la modalità. Se cioè vada rafforzato il patto sociale all’interno del quale il REI trova spazio. Una cosa è certa. Nel momento in cui il reddito di cittadinanza diventa misura rivolta al reinserimento e alla formazione professionale invade di per sé una serie di settori, come il mercato del lavoro, le agenzie per l’impiego, il sistema di formazione professionale e il salario minimo contrattuale, e soprattutto le risorse dei servizi sociali, che rendono questa misura complessa al di là degli oneri di bilancio per gli effetti imprevedibili che il contestuale intervento su questi settori delicati può comportare. Fondamentalmente è’ stato un bel week end di lettura ma la conclusione è alquanto timida. Per quanto si possa filosoficamente argomentare e sociologicamente analizzare, un cambiamento così importante per il nostro Paese richiederebbe ben altre forze e ben altra solidità di consensi di quello che l’attuale schieramento parlamentare, uscito dalle elezioni del 4 marzo ci offre. Il timore è quello di assistere ancora una volta a mezze misure, a pastrocchi rabberciati frutto di compromessi politici, espressioni di maggioranze di governo più che di soluzioni obiettivamente e funzionalmente rivolte a risolvere il problema del Welfare di questo paese, molto più preoccupato di assistere chi già ha, piuttosto che provare a salvare anche quelli che disperatamente provano a restare attaccati al barcone Italia. Occorre trovare risposte piene e convincenti prima che il barcone Italia affondi sul piano sociale prima ancora che economico.

Vittorio Chiummo


Redazione Pressa
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