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Mafia, 23 arresti in Sicilia. E Matteo Messina Denaro resta boss

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Tra i fermati c'è anche Antonio Gallea, tornato in semilibertà dopo 25 anni di reclusione per essere stato riconosciuto tra i mandanti dell'omicidio Livatino


Mafia, 23 arresti in Sicilia. E Matteo Messina Denaro resta boss
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Operazione antimafia dei carabinieri del Ros con il supporto dei Comandi provinciali di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta: 23 i fermati nell’ambito di una inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo contro Cosa nostra e Stidda. In azione anche i militari del 12esimo Reggimento Sicilia, dello ‘squadrone’ eliportato ‘Cacciatori Sicilia’ e del nono Nucleo elicotteri. Tra le accuse, a vario titolo, quelle di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, favoreggiamento personale e tentata estorsione. L’operazione è stata denominata ‘Xydi’.
Dall’inchiesta è emerso che il superlatitante di Castelvetrano Matteo Messina Denaro (nella foto l'ultima ricostruzione fatta a computer del suo profilo) ha ancora una “posizione apicale” in Cosa nostra ed è “punto di riferimento decisionale dell’organizzazione” avendo continuato a impartire direttive sugli affari illeciti piu’ rilevanti della mafia trapanese e di altre province siciliane.

Trai fermati c’è anche Antonio Gallea, tornato in semilibertà dopo avere scontato 25 anni di reclusione per essere stato riconosciuto tra i mandanti dell’omicidio del magistrato Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre del 1990. Avrebbe tramato per riorganizzare la Stidda agrigentina e operato in “sinergia criminale” con Cosa nostra per la risoluzione di diverse vicende e la spartizione dei proventi delle attivita’ illecite.

Le indagini, avviate nel 2018, si sono sviluppate nella parte centro-orientale della provincia di Agrigento, accendendo i riflettori in particolare sul mandamento mafioso di Canicattì “che costituisce tuttora l’epicentro del potere mafioso – spiegano i carabinieri – dell’ergastolano campobellese Giuseppe Falsone“. Quest’ultimo è tra i destinatari del provvedimento cautelare “in quanto risultato a capo della provincia mafiosa di Agrigento”. La Dda di Palermo ha fatto luce sugli assetti di Cosa nostra agrigentina e sulle dinamiche che riguardano le famiglie di Canicattì, Campobello di Licata, Ravanusa e Licata.

Tra i nomi venuti fuori quelli di Calogero Di Caro, considerato capo del mandamento, di Giancarlo Buggea, “rappresentante” di Falsone e “organizzatore” del mandamento, e di Luigi Boncori, capo della famiglia di Ravanusa. Ricostruiti, inoltre, i rapporti tra i rappresentanti del mandamento di Canicatti’ con esponenti mafiosi delle province di Agrigento, Trapani, Catania e Palermo, “sintomatici – dicono i carabinieri – della perdurante unitarieta’ dell’organizzazione”. C’è poi il capitolo della Stidda: i carabinieri parlano a tal proposito di una “rinnovata presenza” nel territorio del mandamento di Canicattì di dell’organizzazione parallela alla mafia “ricostituitasi” intorno alle figure degli ergastolani semiliberi Antonio Gallea e Santo Gioacchino Rinallo“.

E c’è anche un’avvocata penalista agrigentina, Angela Porcello, tra i coinvolti nell’operazione. Secondo i carabinieri la donna, che in passato ha difeso diversi esponenti mafiosi come il boss agrigentino Giuseppe Falsone, avrebbe ricoperto “un ruolo di rilievo nell’ambito delle dinamiche associative delle articolazioni mafiose oggetto dell’indagine”. Porcello “sfruttando le garanzie del mandato difensivo” avrebbe “messo a disposizione” di numerosi affiliati al mandamento il proprio studio legale per alcuni summit di mafia “ritenendolo – dicono i carabinieri – luogo non soggetto a investigazioni”. Nello studio si sono svolti, secondo il racconto dei militari, incontri che hanno riguardato “esponenti mafiosi di primo piano” quali Luigi Boncori, considerato capo della famiglia mafiosa di Ravanusa, Giuseppe Sicilia, capo della famiglia di Favara, Giovanni Lauria, vertice della famiglia di Licata, Simone Castello, considerato “uomo d’onore di Villabate e già fedelissimo di Bernardo Provenzano”, e Antonino Chiazza, esponente della Stidda. “Servendosi” di Porcello, inoltre, il boss Falsone, sottoposto al carcere duro del 41 bis, oltre a riuscire a “interagire” con altri capimafia a loro volta sottoposti allo stesso regime detentivo, avrebbe veicolato e ricevuto informazioni.

Stando alle indagini la Stidda agrigentina aveva messo a punto un progetto di omicidio nei confronti di un imprenditore e di un mediatore. L’episodio rientra nel capitolo dell’indagine riservato al controllo e allo sfruttamento del settore commerciale delle transazioni per la vendita di uva e di altri prodotti ortofrutticoli che in provincia di Agrigento è controllato dalla Stidda. Il mediatore e l’imprenditore erano finiti nel mirino per non avere pagato il racket per guadagni realizzati con le loro attività.


Redazione Pressa
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La Pressa è un quotidiano on-line indipendente fondato da Cinzia Franchini, Gianni Galeotti e Giuseppe Leonelli. Propone approfondimenti, inchieste e commenti sulla situazione politica, ..   Continua >>


 
 
 
 

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