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Alle 8.14 e 46 secondi del 6 agosto 1945 fu sganciata la bomba atomica che rase al suolo la città di Hiroshima. Quella fu la prima volta in cui un’arma di distruzione di massa venne impiegata in guerra e il suo effetto è stato atroce. Con un saldo di circa 80.000 morti al primo impatto, l’urto ha raggiunto i 600 metri di altezza distruggendo il 90% degli edifici della città. Insieme al Bombardamento di Nagasaki – eseguito tre giorni dopo – il Little Boy sganciato su Hiroshima ha decretato, da un lato, la fine della guerra nel Pacifico e, dall’altro, un primo atto di Guerra Fredda nei confronti dell’Unione Sovietica.
A 74 anni di distanza dall’evento che segnò uno spartiacque nell’impiego di strumenti di distruzione di massa, vale la pena ripercorrere brevemente quelli che furono giorni decisivi sia nell’esito della Seconda Guerra Mondiale sia nel teatro orientale, sia nello scacchiere che si è configurato negli anni successivi con la divisione del mondo in due blocchi e le tensioni innescate dall’apertura di quel pericoloso vaso di pandora che consiste – ancora oggi – nell’utilizzo del nucleare a scopi bellici.
Possiamo osservare che il Giappone si dimostrava intransigente di fronte alle ipotesi di resa incondizionata. Nonostante le cocenti sconfitte subite dall’Armata Imperiale sul campo di battaglia, il Consiglio Supremo di Guerra guidato dal Primo Ministro Suzuki era favorevole alla continuità del Giappone nel Conflitto. Pur sperando nell’epilogo di una pace negoziata, i giapponesi non sono potuti uscire dal conflitto a testa alta.
I tentativi di negoziare con l’URSS di Stalin non erano andati a buon fine e la resa incondizionata non era contemplata tra le opzioni dell’Imperatore. Gli alleati, a partire dagli Stati Uniti fino ad arrivare all’Unione Sovietica, non erano disposti ad alleggerire le condizioni per la pace.
D’altronde, tra aprile e maggio del 1945, il Comitato del Progetto Manhattan si riunì per studiare i possibili target della Bomba e nel mese di luglio fu realizzato il primo test denominato “Trinity”. Infine, il 21 giugno, il Comitato ad interim nominato da Truman decise che non c’erano alternative all’utilizzo della bomba.
Conclusa la Conferenza di Potsdam, Truman ha preso la decisione senza esitare, prendendosi la piena responsabilità delle sue azioni e resistendo alle pesanti critiche che gli vennero sollevate prima e dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Secondo lo storico Louis Morton, sebbene Truman si fosse rimesso ai suoi consiglieri più fidati, “la scelta finale fu sua, soltanto sua”. L’irreversibile decisione era stata giustificata dalla necessità di porre fine alle ostilità risparmiando la maggior quantità di vite possibile. Con il termine “risparmiare delle vite”, s’intendeva generalizzare parlando dei soldati di entrambe le fazioni e, addirittura, dei civili giapponesi. In poche parole, l’intenzione era quella di risparmiare tutte quelle vite che si sarebbero perse durante un’operazione militare convenzionale.
Dopo il fallimento delle trattative, la decisione unilaterale degli Stati Uniti era stata presa. Nella mattina del 6 agosto un primo B29 ha sorvolato il cielo del Giappone per controllare la situazione del tempo. La presenza di nubi ha impedito il bombardamento di Kotura e una volta raggiunta Hiroshima, dove il tempo era stabile, l'Enola Gay ha sganciato la bomba che conteneva almeno 60kg di uranio-235. Due giorni dopo sarebbe arrivato il turno alla città di Nagasaki. Il totale delle vittime è stato di circa 200.000 e, nonostante la velocità e la disciplina con le quali il Giappone è stato ricostruito, i superstiti ricordano in modo atroce quella pagina buia delle loro vite e della storia contemporanea.
A distanza di 74 anni da quel tragico epilogo, si potrebbero tirare fuori diverse riflessioni che riguardano il nostro tempo. Proprio in questi giorni, mentre gli Stati Uniti e la Russia non esitano a stracciare l'INF, il ricordo di Hiroshima ci invita a riflettere sull'elevato costo dell'intransigenza in trattative che riguardano la scelta tra la guerra e la pace: due opzioni in mezzo alle quali ci sono sempre migliaia di vite in palio.
Estefano Tamburrini