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Da poco abbiamo compiuto un anno, un annus horribilis di perdite che ha colpito ognuno di noi in un modo o in un altro: chi ha perso i propri cari, chi un anno di scuola, chi lo stipendio o le proprie piccole attività, chi ha perso la salute. Abbiamo vissuto e stiamo vivendo un “lockdown esperienziale” in una presentificazione del tempo in cui manca il “sogno”, nostra vocazione per eccellenza, governati da una scansione temporale in cui è quasi percepibile in sottofondo il ticchettio costante, ripetitivo, sempre uguale di un tempo cronologico (Kronos) che passa, somma di istanti senza pause, senza vacanze, più che un tempo qualitativo (Kairos).
Chissà se torneremo a stringerci la mano quando finirà questa emergenza. Tutti noi abbiamo perso un numero consistente di abbracci.
Perché un gesto amichevole spontaneo come una pacca sulla spalla, un braccio intorno al collo, un abbraccio ci fa percepire l’altro e il suo corpo, ma ci restituisce anche il senso del confine del nostro corpo, mentre tocchiamo l’altro sentiamo dove finisce il nostro corpo e ci soggettivizziamo. Siamo fatti di corpo, e abbiamo un corpo che racchiude la nostra identità. Gli altri, e quindi noi per gli altri, siamo anche, in questo periodo storico, vissuti persecutoriamente come un veicolo del virus. In questo senso, anche dove il virus è entrato più silenziosamente, senza commettere omicidi, ha contaminato le relazioni, ha modificato la struttura nel Dna dei legami inoculandosi in angosce arcaiche.
Stiamo vivendo in una perenne sensazione di asfittica mancanza di libertà. La salute anche mentale è fatta di movimento, di qualunque tipo: la radice latina “movere” accomuna sia emozione (e-movere) sia motivazione.
La libertà è poterci spostare dal luogo in cui ci troviamo, esterno ma anche interiore. La stessa salute mentale è fatta di flessibilità, collegamenti e associazioni; rifugge da fissazioni e immobilità pervasive, blocchi stagnanti che si incistano. Il pensiero nasce dal legame, nel rapporto e si struttura sugli stati emotivi. I significati si costruiscono e ricostruiscono dentro le relazioni. La nostra identità è sempre in cambiamento, cambia persino l’identità dell’umanità nel corso della storia, e ogni esperienza vissuta in pienezza espande il nostro sé, cerchiamo noi stessi in ogni cosa che facciamo, nelle decisioni che prendiamo, in chi “ incontriamo”.
Siamo esuli nel tempo, funamboli tra passato e futuro, vacillanti tra uno stato d’attesa e uno stato d’allerta tra il desiderio e il rimpianto di chi si trova fisicamente distante da casa, quella “casa conosciuta e sicura” lontana anche nel tempo. Siamo ostaggi di un sentimento di impotenza, in attesa di migliori decisioni politiche, decreti legislativi, in attesa di essere vaccinati; facciamo ricorso al “buon senso comune” in una situazione di insensatezza e incoerenza, con un grado di controllo effimero. L’impotenza sequestra la capacità di pensare alternative, progettare secondo la nostra capacità di agire. Ci trasforma in un corpo vuoto in uno stato di indifferenziazione. Ripensando alla vita di prima non possiamo fare a meno di provare qualche nota di nostalgia che unisce due concetti, il dolore e il ritorno, il dolore del mancato ritorno: come nell’Odissea e il viaggio del suo protagonista che si strugge per la sua amata Itaca.
“Quando le onde tempestose hanno messo in pericolo la mia nave, quando i venti hanno spezzato i robusti alberi che reggevano le vele, il mio pensiero correva a Penelope che aspettava il mio ritorno e questo pensiero mi ha dato la forza di combattere le avversità con cui gli Dei, invidiosi dei miei successi, hanno voluto rendere difficile il mio ritorno.” Luigi Malerba, Itaca per sempre, 1997.
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Vera Vaccari
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Redazione Pressa
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