Ucraina, il realismo di Trump e il riposizionamento europeo
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Ucraina, il realismo di Trump e il riposizionamento europeo

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Non dubitiamo che con la presidenza Trump una parte di questa classe dirigente proverà a riposizionarsi per sopravvivere, la Meloni in primis


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Se una tregua nella sanguinosissima guerra a Gaza sembra essere stata raggiunta in queste ultime ore con la mediazione in extremis dell’amministrazione Biden, un altro scenario di guerra ben più difficile da comporre attende al varco il neo presidente Donald Trump. Lo storico francese Emmanuel Todd, autore del libro best seller La sconfitta dell’Occidente, ha recentemente scritto che toccherà proprio a Trump gestire la débacle nella guerra russo-ucraina, lasciatagli in eredità dal suo predecessore. Un conflitto che, al di là degli aspetti puramente politico-militari, si sta rivelando come un’impietosa cartina di tornasole del declino economico, demografico e valoriale della superpotenza USA e dei paesi suoi satelliti.
E’ questo un amaro paradosso per il tycoon, che ha sempre riposto la chiave del suo successo in slogan suggestivi come America first e make America great again che esaltano la grandezza del sogno americano e del suo impero.
All’indomani della trionfale vittoria su Kamala Harris, i toni distensivi assunti in campagna elettorale e il roboante annuncio che avrebbe portato “la pace nel mondo” e messo fine a tutte le guerre, hanno via via lasciato il posto a un crescendo di dichiarazioni bellicose: il Canada dovrebbe diventare il 51° stato degli USA, il canale di Panama tornare di proprietà americana, il golfo del Messico essere ribattezzato “golfo d’America”, mentre sulla Groenlandia danese ha promesso che presto sventolerà, con le buone o con le cattive, la bandiera a stelle e strisce. Dulcis in fundo, ha rinnovato la minaccia di “scatenare l’inferno” sull’Iran.

Sull’impegno di risolvere rapidamente la guerra tra Mosca e Kiev assunto in campagna elettorale Trump non ha invece fatto marcia indietro. Svincolare gli USA dal ginepraio ucraino, costato centinaia di miliardi di dollari, e trovare rapidamente una composizione strategica con la Russia, consentirebbe a Trump di concentrarsi su altri dossier che lui considera prioritari, come il Medio Oriente e la Cina. Il neopresidente ha più volte dichiarato, anche per l’interposta persona del generale Keith Kellog, nominato inviato speciale per l’Ucraina e la Russia, che la base negoziale dovrebbe essere trovata sul congelamento delle attuali linee del fronte e sulla garanzia che all’Ucraina non sarebbe consentito l’accesso alla NATO per almeno vent’anni. Allo scopo di agevolare l’intesa, si è anche detto disponibile a un summit a due con il presidente russo Vladimir Putin, definito dal suo predecessore un “criminale di guerra”.
Tale formula di negoziato sarebbe uno schiaffo in faccia non solo per l’Ucraina, che vedrebbe il proprio destino platealmente deciso sulla propria testa, ma anche per la NATO e per l’Europa, trattati pubblicamente come inutili vassalli dopo gli enormi sforzi militari ed economici profusi per supportare Zelensky. L’incontro al vertice Trump-Putin rappresenterebbe inoltre l’indiretta conferma di quanto i russi hanno sempre sostenuto, e cioè che questa guerra è stata voluta dagli USA fin dal 2014 e che gli ucraini sono stati usati come carne da cannone, sacrificabile quando non serve più allo scopo, e gli europei come un salvadanaio da saccheggiare.
Anche i mastini della guerra di Washington si rendono conto che sul piano militare per Kiev non ci sono prospettive di vittoria. Dopo il sanguinoso fallimento della controffensiva dell’estate del 2023 nella regione di Zaporizhya, le truppe di Kiev hanno continuato a perdere lentamente ma costantemente terreno e a dissanguarsi. Le brigate sono ormai ridotte all’osso e l’amministrazione Biden ha più volte chiesto all’Ucraina di abbassare l’età della mobilitazione a 18. E’ la cruda legge delle guerre per procura: noi americani mettiamo i soldi e voi dovete mettere sul piatto le vite dei vostri figli. Una misura così drastica, sempre respinta da Kiev, avrebbe solo l’effetto di una nuova ondata migratoria all’estero, e certo non sarebbe in grado di raddrizzare le sorti del conflitto. La corda di violino si sta facendo sempre più tesa e di questo passo la linea del fronte potrebbe rompersi in tempi brevi. Se nei primi mesi del 2024 i russi erano in grado di conquistare 40 km quadrati al mese, ora avanzano al ritmo di 400 km. Con questo trend, entro la metà del 2025 saranno prevedibilmente in grado di ottenere il controllo completo delle quattro regioni del Donbass entrate a far parte della federazione russa alla fine del 2022 (Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhya).

Non c’è dubbio che gli USA sono nelle condizioni di fare ingoiare l’amarissimo boccone all’Ucraina, un paese che senza l’assistenza militare ed economica americana si affloscerebbe militarmente ed economicamente in poche settimane. Il regime di Kiev dovrebbe rinunciare a circa il 20 per cento del proprio territorio, che comprende gran parte delle risorse industriali ed energetiche del paese, senza di fatto nulla in cambio se non vaghe promesse su una futura adesione all’UE e sui finanziamenti per la ricostruzione del paese. Zelensky si trova ormai in un vicolo cieco, e dopo l’elezione di Trump è stato costretto a mitigare i roboanti proclami di vittoria e ad adattarsi a una narrativa molto meno trionfalistica. Ora ammette apertamente l’impossibilità di vincere sul campo, apre alle trattative con il Cremlino, vagheggiando uno scenario “tedesco”, nel quale la riconquista dei territori perduti verrebbe affidata non alle armi ma alla diplomazia. Anche così sarebbe la sottoscrizione di una dura sconfitta, che il paese ben difficilmente gli perdonerebbe dopo le immani distruzioni e le centinaia di migliaia di morti lasciati sul terreno.
Si può dare credito a Trump quando dice che con lui presidente questa guerra non sarebbe deflagrata, ma il bilancio fallimentare di questi ultimi tre anni non può essere solo scaricato sul proprio predecessore, dal momento che tra il 2017 e il 2021, negli anni in cui il deep state statunitense preparava febbrilmente l’Ucraina allo showdown con la Russia, il presidente era lui e non Biden. E certo un personaggio come lui non ammetterà mai che la radice dei rovesci politico-militari nelle steppe ucraine deve essere ricercata nelle difficoltà strutturali dell’impero americano, sempre meno capace d’imporre la propria agenda al mondo.
Se per l’alfiere di America first non è semplice accettare che la conclusione della guerra rappresenti la manifestazione anche simbolica del declino statunitense, sarà ancor più problematico individuare una soluzione che possa essere presentata come un compromesso e non una pura e semplice capitolazione. Certo, il sentiero delle trattative si presenta molto stretto e di sicuro non basteranno le 24 ore promesse in campagna elettorale per raggiungere un accordo di pace, tanto meno ora che i russi sono consapevoli di avere la vittoria a portata di mano e che quindi saranno assai meno inclini alle concessioni.

In una recente intervista, Nikolai Patrushev, forse il più stretto collaboratore di Vladimir Putin, ha ribadito i punti fermi del Cremlino sulle eventuali trattative. Innanzitutto, i russi respingono fermamente qualsiasi ipotesi di cessate il fuoco e di congelamento del fronte; memori dell’inganno degli accordi di Kiev mediati dagli europei, temono che si tratti solo di un escamotage per dare tempo all’Ucraina di riarmarsi e di riprendere la guerra in un prossimo futuro. Patrushev ha inoltre ribadito che non può esserci alcun margine di trattativa sul riconoscimento internazionale della piena sovranità della Crimea e delle quattro regioni ex ucraine entrate a far parte in via definitiva della Federazione russa. I negoziati sull’Ucraina dovrebbero essere condotti da Russia e Stati Uniti, senza la partecipazione di altri paesi occidentali poichè “non c’è niente di cui parlare con Londra e Bruxelles”.
Non è sorprendente l’atteggiamento sprezzante che Washington e Mosca stanno riservando alle élite europee, escludendole esplicitamente da qualsiasi negoziato. E’ il premio meritato alla servile passività, amplificata da media ancor più servili, con cui hanno obbedito in questi tre anni a qualsiasi imposizione americana, ai colossali costi che hanno caricato sulla pelle dei cittadini europei per sostenere il regime di Kiev e la sua guerra, al silenzio che hanno mantenuto sul gravissimo attentato al gasdotto Nord Stream, alla perdita di competitività e al collasso delle propria industria pesante provocati dall’innalzamento dei costi energetici.
Al là di ogni giudizio che si può formulare su Trump, non si può non riconoscergli il realismo che sta manifestando su questa guerra, una qualità che continua a mancare completamente, e con ben poche eccezioni, alla classe politica europea, ancor oggi in fila a Kiev per omaggiare Zelensky e promettergli ogni sostegno. L’improbabile ministro degli esteri europeo, l’estone Kaja Kallas, ha riaffermato in questi giorni che l’Unione europea continuerà a sostenere l’Ucraina anche se gli USA smetteranno di farlo. E per non essergli da meno, proprio ieri il ministro della difesa italiano Guido Crosetto ha rassicurato il traballante presidente ucraino che “è giunto il momento per l’Italia di aumentare gli aiuti” a Kiev. Un altro carico da 90, come l’ex premier olandese Rutte, ora parcheggiato alla presidenza della NATO, è arrivato a dire che gli europei devono spendere meno in sanità e pensioni e raddoppiare i fondi per la difesa “se nei prossimi 4-5 anni non vogliono scegliere tra frequentare corsi in russo o emigrare in Nuova Zelanda”. Non dubitiamo che con la presidenza Trump una parte di questa classe dirigente proverà a riposizionarsi per sopravvivere, la Meloni in primis. Ma chi pagherà per le macerie politiche ed economiche in cui hanno ridotto l’Europa?

Giovanni Fantozzi
Foto Agenzia Nova

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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