La folle rincorsa alle armi e la retorica bellica demoliscono lo stato sociale

Le cifre che verranno stanziate per gli armamenti dovranno essere reperite tagliando inevitabilmente lo stato sociale
Una classe dirigente minimamente ragionevole farebbe tesoro dei propri errori e cercherebbe di raddrizzare la barra prima che sia troppo tardi: al contrario, le élites che sono al potere a Bruxelles e nelle principali capitali europee sembrano invece impegnate a perseverare sulla strada che sta conducendo rapidamente il continente verso il precipizio economico e bellico. Anche Mario Draghi, quello che ai tempi in cui era presidente del Consiglio chiedeva sarcasticamente al popolo italiano “volete la pace o i condizionatori accesi?” e che si distingueva tra i pasdaran dell’embargo al gas e al petrolio russo, piange ora a calde lacrime la “crisi dell’Europa”, riconosce che i prezzi dell’energia elettrica sono di 2-3 volte più alti di quelli americani e cinesi e quelli del gas 4-5 volte superiori, fino a denunciare la dissoluzione del “nostro modello di crescita”, quasi che di tutto ciò lui non sia per nulla corresponsabile.
A scombussolare i vassalli europei sta contribuendo non poco il fenomeno Donald Trump. Negli anni della presidenza Biden per loro era tutto più semplice. Usi a obbedir tacendo, da fedeli sudditi che contano sulla benevolenza del loro imperatore, agivano al traino degli USA, eseguendo gli ordini senza fiatare: i servizi americani e britannici facevano saltare, magari attraverso tirapiedi ucraini, il gasdotto Nord Stream, costato decine di miliardi di euro? Da Bonn, Roma e Parigi si rispondeva comprando GNL americano di peggiore qualità e a costo quintuplicato. Da Washington si chiedevano nuove sanzioni a Mosca? In un crescendo di furore masochista Bruxelles non ha esitato ad autoinfliggersi ben 18 pacchetti sanzionatori. Kiev aveva bisogno di nuove forniture di armi? Gli europei donavano gratuitamente le proprie per poi rimpinguare gli arsenali con costose commesse affidate alle industrie belliche americane.
Con l’arrivo di Trump a Washington lo scenario è improvvisamente cambiato. Il tycoon ha preso a muoversi sulla scena internazionale con la stessa grazia di uno sceriffo ubriaco che entra nel saloon sparacchiando a destra e a manca, trattando ripetutamente a pesci in faccia i satelliti europei non meno che il presidente ucraino Zelensky, e chiedendo di farla finita con quella guerra sbagliata e sanguinosa, voluta dal suo predecessore. Come ricompensa ai servi buoni e fedeli per il loro servizio, ha imposto tariffe doganali senza precedenti e preteso il pagamento sull’unghia di ogni nuova fornitura bellica all’Ucraina dopo l’esaurimento dell’ultimo pacchetto da 50 miliardi di dollari stanziato da Biden. E pur di cavarsi fuori in fretta dal pantano ucraino, Trump non ha avuto alcuna remora a srotolare in Alaska un tappeto rosso davanti a Vladimir Putin, gettando disinvoltamente alle ortiche tutta la propaganda del mainstream che da oltre tre anni dipinge il presidente russo come un criminale assetato di sangue e isolato sul piano internazionale.
Prima di essere eletto, il magnate americano asseriva che avrebbe risolto quel conflitto in 24 ore. A distanza di nove mesi e dopo sette conflitti brillantemente sistemati (a suo dire), neppure il ricorso ai poteri paranormali di cui è notoriamente dotato è stato sufficiente a risolvere una guerra dalle radici troppo profonde e andata troppo oltre per concludersi in un nulla di fatto, senza vinti e vincitori. A metà agosto, nell’incontro di Anchorage Putin ha ribadito i punti irrinunciabili della Russia per sottoscrivere un accordo di pace: rinuncia di Kiev alla NATO, cessione definitiva dei territori del Donbass, garanzie linguistiche e religiose per la popolazione russa. Non c’è dubbio che per Kiev queste condizioni significherebbero di fatto la capitolazione e finora le ha respinte sdegnosamente. Ma presto o tardi l’Ucraina dovrà fare dolorosamente i conti non solo con la sconfitta subita dalla Russia sul campo di battaglia, ma anche con alcuni errori fatali commessi, in primis l’aver riposto cieca fiducia negli americani, e poi la mancata sottoscrizione della bozza di accordo che i delegati russi e ucraini avevano preparato a Istanbul nell’aprile 2022. Se lo avesse fatto avrebbe evitato un numero incalcolabile di morti e distruzioni e mantenuto la propria integrità territoriale, in cambio della sola formale rinuncia all’adesione alla NATO. Sleepy Joe Biden e un altro statista di grande caratura come Boris Johnson convinsero allora Zelensky a stracciare l’accordo e a continuare la guerra perché secondo loro la Russia era un gigante dai piedi d’argilla e il sostegno bellico della NATO all’Ucraina sarebbe stato decisivo per metterla in ginocchio. Tre anni e mezzo dopo, centinaia di migliaia di morti lasciati sul terreno, e quasi l’intero Donbass sotto controllo russo, si è visto quanto sia stata sbagliata quella decisione, ma né Zelensky né il gruppo di potere che gli ruota attorno sono disposti a riconoscerlo. Mettere fine al conflitto risparmierebbe agli ucraini un ulteriore bagno di sangue, ma segnerebbe al tempo stesso la fine immediata per il gruppo di potere di Kiev, e forse non solo politica; quindi avanti con la guerra, perché fin che c’è la guerra si allontana il redde rationem.
Se Trump si è platealmente sganciato dal treno ucraino in corsa verso la débacle, proponendosi negli improbabili panni del mediatore, la strada senza ritorno imboccata da Zelensky della guerra fino all’ultimo ucraino è stata invece abbracciata in pieno anche dalla UE e dai principali paesi europei. L’unica logica comprensibile di questo viaggio in fondo alla notte è quella del simul stabunt simul cadent, poiché Macron, Starmer, Merz e la Meloni sono ben consapevoli che è troppo tardi per tirarsi indietro e che quando Kiev cadrà il conto verrà presentato anche a loro. Da qui, il ripetere quasi ossessivo che il nemico è alle porte, che l’”orco” Putin è pronto ad allungare i suoi artigli sull’intera Europa, senza minimamente curarsi di spiegare razionalmente quale ragione avrebbe mai Putin di attaccare la Polonia o la Germania.
Stiamo assistendo alla riedizione del metodo che abbiamo visto in funzione alcuni anni orsono al tempo del Covid 19: con la complicità dei media, nella quasi totalità ridotti a megafoni del potere, si amplifica ad arte un’emergenza, si sparge un clima di paura per poi fare passare nel silenzio qualsiasi misura impopolare o liberticida. Ogni evenienza reale o immaginaria è utile allo scopo, come dimostra la vicenda dei droni da ricognizione Gerbera di fabbricazione russa ma probabilmente spediti dall’Ucraina, precipitati nei giorni scorsi dopo aver sorvolato per centinaia di chilometri il territorio polacco. Dal valore complessivo di poche migliaia di euro, solo quattro droni solo stati abbattuti dagli F16 polacchi con missili dal costo unitario di un milione di euro, e peraltro dietro segnalazione della Bielorussia. Un’occasione subito sfruttata dal capo della NATO Mark Rutte per affermare che “i russi possono distruggere l’Europa in cinque minuti”; eppure fino a poco tempo fa sui nostri giornali leggevamo che gli arsenali di Mosca erano svuotati, i missili esauriti e che l’esercito era talmente scalcinato da rappezzare alla meglio carri armati vecchi di 50 anni.
Alcuni paesi europei hanno anche provato a gonfiare il petto e a formare un gruppo di “volonterosi”, a parole disposto a inviare truppe al fianco dell’Ucraina, nell’improbabilissimo caso del raggiungimento di un accordo sul cessate il fuoco. La loro ferrea determinazione è durata l’espace d’un matin, e si è sciolta non appena da Mosca hanno fatto sapere che se le truppe di paesi NATO proveranno a mettere piede in Ucraina, le bombe russe comincerebbero a piovere anche sulle loro teste. La verità è che senza “papi” Trump e l’ombrello militare USA, questa Europa non è solo militarmente debole ma soprattutto fragile sul piano politico e spirituale, e si scioglierebbe come neve al sole prima ancora di entrare in battaglia.
Oltre ad armarsi fino ai denti e a finanziare l’industria bellica per centinaia di miliardi di euro, dopo il disimpegno americano l’Europa deve caricarsi per intero sulle spalle il fardello di Kiev e pagare a piè di lista tutte le armi che gli USA forniranno d’ora in poi. Una prima tranche di 500 milioni di dollari è stata stanziata in questi giorni, ma nei prossimi mesi il conto sarà di gran lunga più salato. Zelensky ha già detto che per proseguire la guerra nel 2026 occorreranno 120 miliardi di dollari, 60 li metterà l’Ucraina, di conseguenza gli altri 60 dovremo metterli noi.
Non sappiamo se alla folle rincorsa alle armi e alla retorica bellica che surclassa per importanza ogni altro argomento della politica europea farà seguito prima o poi una guerra aperta. Certo è che, a fronte di una crisi economica sempre più minacciosa, le cifre che verranno stanziate per gli armamenti dovranno essere reperite tagliando inevitabilmente lo stato sociale. La presidente Meloni è troppo scaltra per affermarlo apertamente, ma il cancelliere Friedrich Merz, dal carisma molto inferiore a quello di un impiegato del catasto, lo ha detto esplicitamente e senza arrossire: “la Germania non può più finanziare il suo stato sociale”. E se non può farlo la Germania, figurarsi l’Italia.
Il fallimento politico economico che sta manifestando questa classe dirigente che sfortunatamente governa attualmente l’Europa, di certo non in nostro nome, è rivelatore di una più grave e profonda crisi morale. Basta mettere a confronto le risolute e quotidiane condanne che da oltre tre anni sentiamo ripetere contro gli invasori russi, le stragi di civili e le peggiori nefandezze che commetterebbe l’esercito di Mosca, accompagnate dalla messa al bando dal consorzio civile di ogni espressione economica, culturale e sportiva di quel paese, con i prudentissimi e reticenti giudizi che costoro esprimono sui sistematici massacri d’innocenti che gli israeliani stanno perpetrando a Gaza da due anni a questa parte, per affermare che la loro monumentale ipocrisia è pari solo allo loro assoluta mancanza di scrupoli.
L’ONU ha certificato che in tre anni e mezzo di guerra sono morti sul fronte russo-ucraino poco meno di 14 mila civili, la cifra senz’altro più bassa in rapporto alla popolazione in un grande conflitto dal dopoguerra a oggi, mentre quella di Gaza, con i suoi 65 mila morti ha ben pochi precedenti. Alla violenza omicida sulle persone innocenti si è aggiunta la scelta deliberata di affamarle per costringerle ad andarsene ed impadronirsi di quei territori. Il ministro israeliano delle finanze, Bezalel Smotrich, ha detto apertamente che, dopo la cacciata dei palestinesi, Gaza diventerà, con il sostegno degli USA, “una miniera d’oro immobiliare”. Per due anni, da Bruxelles fino a Roma si sono letteralmente voltati dall’altra parte, diventando di fatto complici dello scempio senza fine che continua a consumarsi in diretta sotto i nostri occhi. Ci voleva il solito, inqualificabile, Merz, travestito da cancelliere tedesco, per dire papale papale che “Israele sta facendo il lavoro sporco al nostro posto”.
Solo adesso, e solo di fronte alla crescente pressione di una parte dell’opinione pubblica, assistiamo a un riposizionamento piuttosto timido e riluttante di alcuni paesi europei, tra cui l’Italia. Non potendone proprio fare a meno, la Meloni ha derubricato quello che per la Commissione indipendente dell’ONU è un “genocidio” a una reazione “decisamente sproporzionata di Israele”. I 65 mila morti diventano per lei “un numero di vittime inaccettabile”. Riconoscimento dello stato di Palestina? Sanzioni politiche economiche a Israele e al suo governo? Non se ne parla assolutamente poichè i suoi buoni amici Trump e Netanyahu potrebbero aversene a male, e questo conta ben più che lo sterminio di un popolo.
Giovanni Fantozzi
Foto Governo italiano
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