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Rubrica a cura di Alessandra Dal Borgo - Consultinvest sim
I dati macroeconomici hanno confermato che l’economia USA non riesce a crescere in modo forte come nella seconda parte del 2023 e che è in atto una fase di assestamento su livelli di espansione economica più bassi. Anche il mercato del lavoro USA, pur rimanendo storicamente tonico, inizia a mostrare segnali di indebolimento. La crescita, però, rimane ancora a galla grazie ad alcuni settori industriali che stanno investendo molto (soprattutto sulla digitalizzazione e l’IA), riuscendo così a compensare anche un certo rallentamento dei consumi privati. Questo induce a ritenere possibile una crescita un poco più bassa nei prossimi due trimestri, ma non ancora una recessione. In termini di inflazione, anche negli USA i dati palesano indizi di moderazione e raffreddamento sulle componenti più volatili, mentre su quelle dei servizi e delle componenti più core è ancora presto per cantare vittoria.
Anzi, a questo si deve aggiungere che, per un puro effetto statistico dato dal fatto che nella seconda parte del 2023 il calo dell’inflazione è stato forte, servirà che i prossimi aumenti mensili dei prezzi siano molto contenuti affinché l’inflazione annua possa continuare a calare verso il 2%. Per questo motivo, la FED rimane molto cauta, e non ha tagliato i tassi a giugno, come invece fatto dalla BCE, e non lo farà neppure a luglio, continuando a veicolare un messaggio di prudenza e di cautela, oltre ad aver rivisto al rialzo le sue aspettative di inflazione per il 2024 e 2025 e avendo indicato che lo spazio per i ribassi dei tassi di policy quest’anno sarà limitato: probabilmente il primo taglio della FED sarà a settembre se si saranno avuti sensibili e sostenibili cali dell’inflazione.
In Europa, le elezioni hanno portato un certo scompiglio e aumentato l’incertezza, limitando così i possibili spazi di una facile ripresa che avrebbero potuto instaurarsi nella seconda parte dell’anno dopo le difficoltà del 2023. Probabilmente le paure politiche in Francia sono state sovrastimate, ma non vi è dubbio che l’assetto politico europeo si è indebolito e le politiche cooperative e di sostegno perderanno sponsor importanti, mentre si tornerà a dibattere intensamente il tema della stabilità dei conti pubblici, in Francia come anche in Italia.
Anche nella zona euro, la dinamica dell’inflazione è e rimarrà l’“osservato speciale” e potrebbe verificarsi che ulteriori cali, vuoi per le ragioni statistiche dette sopra, vuoi per la resistenza dell’inflazione nei servizi e per una dinamica salariale che rimane positiva, richiederanno tempo risultando in un andamento anche altalenante. Il taglio dei tassi BCE di 25bps visto a giugno non crediamo costituisca il segnale d’inizio di una progressiva e veloce fase di ribassi. Crediamo, infatti, che anche la BCE manterrà un approccio prudente e si muoverà solo dopo aver verificato l’andamento calante dell’inflazione: ossia nessuna mossa “proattiva o programmatica”.
Nel complesso, quindi, dobbiamo aspettarci un calo ciclico, che di certo non sarà aiutato dall’incertezza politica e geopolitica. Quest’ultima è anche responsabile di far risalire alla ribalta il tema dei dazi commerciali tra USA, Europa e Cina. Un calo ciclico che però non sarà recessione e dove l’“ultimo miglio” del rientro dell’inflazione al 2% sarà difficile e lungo.
Nonostante la prudenza delle banche centrali, però, i mercati vogliono guardare lontano e anticipare che la crescita calerà, come pure l’inflazione, ma che alla fine le banche centrali dovranno abbandonare la cautela e iniziare a tagliare (2 tagli per la FED e la BCE entro fine anno) iniziando in autunno un ciclo di ribassi che proseguirà anche nel 2025.
Il nostro scenario per il 2024 è più cauto sul calo dell’inflazione rispetto a quello del mercato e quindi opta per una allocazione di profilo di rischio medio che abbia un 40% di obbligazioni e un 60% di azioni, recependo una cautela verso l’azionario dettata dalla prudenza che terranno le banche centrali, dalla aumentata incertezza politica (con agosto quella politica USA prenderà il proscenio globale) e da valutazioni dei mercati azionari USA che rimangono molto alte e con performance molto positive concentrate su pochissimi titoli “vincenti”.
Tuttavia, proprio l’assenza di imminenti segnali recessivi insieme alla presenza di politiche fiscali ancora espansive e di politiche monetarie che prima o poi prospetteranno futuri ribassi dei tassi di policy, crediamo che si riuscirà ad evitare che i mercati azionari correggano al ribasso in modo violento. L’esperienza di questi ultimi anni dice che una vera correzione per i mercati azionari è oggi possibile solo se, a causa di una sorprendentemente cattiva dinamica dell’inflazione, le banche centrali dovessero cambiare corso optando per una maggiore restrizione; oppure a seguito di un grave incidente geopolitico-militare.
Ciò porta a non ridurre l’esposizione azionaria, bilanciandola tra i temi “Growth” per gli USA - che hanno una valenza strutturale di lungo periodo - e quelli più “Value” per l’Europa - dove le valutazioni sono meno stressate.
Quanto al posizionamento obbligazionario governativo, agli attuali livelli di rendimento – con curve mediamente ben al di sotto dei tassi di policy e che scontano già quanto crediamo sarà concesso nei prossimi mesi dalle banche centrali in tema di ribasso dei tassi di policy - e in assenza di una recessione in arrivo, non crediamo a forti prospettive di redditività e temiamo invece la permanenza di volatilità sulle scadenze più lunghe (anche in ragione del ritorno dei temi sulla stabilizzazione dei conti pubblici europei e USA). Per cui preferiamo le scadenze più brevi con i rendimenti più elevati: ossia quella breve a 3/4 anni per l’euro e media a 5 anni per il dollaro USA.
Sul dollaro, che pur inizia a perdere smalto con la possibilità di vedere un test in area 1.10, riteniamo però che sia presto per l’uscita dal range 1.05 – 1.10 che persiste dalla scorsa estate.
Elezioni USA: i probabili effetti di una vittoria di Trump
Proprio mentre stiamo ancora “digerendo” gli esiti delle elezioni in Europa, inizia a surriscaldarsi il clima di quelle negli USA. Il dibattito presidenziale di giugno, quello in cui Biden non è stato certamente all’altezza delle sue aspettative e di quelle del suo partito, ha spalancato le porte a un’elevata probabilità di vittoria del suo avversario Trump. I sondaggi hanno mostrato un impietoso calo di consensi per Biden e scatenato il dibattito interno al suo partito che sta domandandosi se non sia il caso di cercare un sostituto, nonostante le difficoltà tecnico-politiche che questo comporterebbe a soli 4 mesi dalle elezioni e a 1 mese dalla Convention Democratica che avrebbe dovuto impalmare Biden.
Questa stessa incertezza e indecisione nella direzione che il partito Democratico intenderà prendere sul proprio candidato non giova certo all’aumento dei consensi; infatti, le probabilità di una vittoria di Trump sono in decisa ascesa (e non deve essere dimenticato che per una serie di fattori una vittoria di Trump si trasformerebbe molto più probabilmente in un Congresso in mano ai Repubblicani; cosa che non si può dire per un Congresso Democratico in caso di vittoria di Biden o del possibile nuovo candidato Democratico).
Ma che cosa potrebbe voler dire per i mercati una vittoria di Trump? Per rispondere oggi a questa domanda bisogna ovviamente prendere per buono quanto della sua agenda politica è finora noto, premettendo altresì che Trump in passato si è spesso dimostrato molto ondivago e amante delle sorprese e degli improvvisi cambi di rotta, non preparati diplomaticamente o politicamente.
Ora, sulla base di quanto esternato finora da Trump, pare molto probabile che una sua eventuale vittoria risulti in uno scenario USA più inflazionistico e forse anche più “stagflattivo”.
Mercato Obbligazionario. L’intenzione di confermare gli sconti di imposta da lui varati nel 2017 (e magari aumentarli), finanziati con i dazi commerciali, è una ricetta certa per impedire il contenimento di un debito e di un deficit pubblico federale USA che sono già su una traiettoria non disciplinata e tantomeno virtuosa. Inoltre, la non nascosta ostilità di Trump verso Powell e la gestione della Fed lascia temere crescenti pressioni politiche verso la banca centrale USA, rendendo potenzialmente meno attuabili politiche monetarie restrittive non popolari.
I dazi commerciali anti-Cina e anche anti-Europa, che verrebbero rafforzati, e le politiche anti-immigrazione dovrebbero assicurare una rinnovata pressione inflazionistica, ovvero impedire un facile rientro al di sotto del 2% nei prossimi anni e potrebbero danneggiare nella prima fase – ossia prima che le imprese adottino le necessarie contromisure – il ciclo economico USA limitandone la capacità di finanziare il debito.
Se così dovesse essere, i rendimenti governativi USA a lunga scadenza, che già oggi non incorporano alcun premio al rischio legato al deficit e al debito divergenti, dovrebbero salire incorporando minore crescita ma anche maggiore inflazione, oltre a una scarsa disciplina verso gli equilibri di bilancio: tornerebbe così a salire il cosiddetto “Term Premium” sulle obbligazioni governative generando curve più ripide.
Mercati Azionari
La proroga del taglio delle tasse sul capital gain e sulle eredità sarebbe sicuramente ben accolta dai mercati, così come le politiche di potenziamento infrastrutturale e di re-shoring che sono state avviate da Biden e che non saranno modificate. Ma questi non sarebbero gli unici effetti delle misure che Trump sta promettendo. Si dovranno, infatti, valutare i possibili effetti di alterazione dell’offerta e di limitazione del commercio internazionale che risulteranno da una rinnovata politica protezionistica USA che vedrebbe tariffe applicate su qualsiasi cosa entrerà negli Stati Uniti, soprattutto se provenienti dalla Cina. Per cui incontreranno difficoltà coloro che sono molto esposti al commercio con la Cina (visto che si è parlato di dazi dal 60 al 100% e che Pechino non mancherà di replicare con le sue restrizioni commerciali) ma anche con l’Europa e alcuni paesi emergenti. Inoltre, la spinta verso una maggiore deregolamentazione che è al centro dell’agenda Trump dovrebbe favorire maggiormente alcuni settori, tra cui i principali sono quelli legati all’energia tradizionale, alle materie prime e al settore immobiliare, penalizzando quelle industrie che hanno puntato sulla mobilità elettrica sfruttando sussidi statali per l’acquisto dei veicoli elettrici che Trump vuole abolire.
Così come una vittoria di Trump dovrebbe allontanare di nuovo gli USA dalla collaborazione sulle politiche di cooperazione internazionali che riguardano la lotta al cambiamento climatico e la difesa (NATO e Iran), approfittando anche di un ritorno di debolezza e confusione politica in Europa.
In sostanza, Trump sembra poter promettere, di nuovo, l’isolazionismo e il protezionismo USA, i cui effetti potrebbero risultare in un dollaro che rimane forte insieme con l’oro e in un’inflazione persistente accompagnata da una crescita economica reale modesta.
Paolo Longeri - capo analista Consultinvest sgr