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Il veganesimo è un movimento che rifiuta tutto ciò che è di derivazione animale, non solo da un punto di vista alimentare, ma anche in tutte le scelte riguardanti il proprio stile di vita. A prescindere dal fatto che in certi ambienti sia diventato quasi una moda, il veganesimo suscita oggi parecchio interesse, soprattutto in accezione negativa. Credo quindi sia il momento opportuno per fare luce sulla questione, ma partendo da un altro concetto: la cucina vegetale.
Di che cosa si tratta?
La cucina vegetale a cui faccio riferimento non si limita essenzialmente all’intenzione di eliminare qualsiasi prodotto di origine animale, ma di tenere in considerazione molti altri concetti, come ad esempio la stagionalità, la territorialità, l’attenzione all’aspetto nutrizionale e soprattutto alla sostenibilità.
Rispetto è la prima parola che mi viene in mente.
Il rispetto della materia prima e per l’ecosistema che la produce.
Il rispetto per l’uomo, sia come produttore che come consumatore.
La logica che dovremmo seguire, quando si parla di alimentazione, è proprio quella dell’approccio naturale, poiché lo sfruttamento irrazionale delle risorse, sta portando piano piano ad una crisi inesorabile.
D’altronde il susseguirsi delle stagioni non comporta solo un cambiamento climatico e di guardaroba!
Se il sistema vegetale ci propone, a seconda della stagione in cui ci troviamo, una serie di prodotti differenti, una ragione ci deve pur essere. Un concetto semplice, ma che amaramente pochi seguono.
Infatti se osserviamo oggi il mercato della grande distribuzione globale, tale logica si interrompe e viene sostituita da quella del profitto. Nudo e crudo.
Anche il mercato legato ai prodotti certificati “Veg”, vista l’impennata della domanda, è stata un’opportunità colta a braccia aperte dalle grandi multinazionali.
Nonostante la certificazione ed il rispetto formale dei requisiti richiesti, tali prodotti sono il più delle volte ben lontani dall’essere “sostenibili”.
In taluni casi perché prodotti a migliaia di chilometri dal consumatore finale (incidendo così pesantemente attraverso il loro trasporto come impatto ambientale) o magari perché ottenuti attraverso pratiche di coltivazione intensiva (che impoveriscono il suolo ed avvelenano l’ambiente) o infine perché viene sfruttata manodopera sottopagata o i contadini vengono messi in una condizione di estrema debolezza contrattuale rispetto ai grandi gruppi commerciali (pensiamo al cibo low cost).
Secondo voi quindi possono trovare spazio, in questo tipo di mercato, concetti come stagionalità e, soprattutto, rispetto?
Nella mia esperienza professionale, avendo utilizzato materie prime di ogni origine e provenienza, posso affermare che i migliori risultati in termini di gusto e resa si ottengono col cibo stagionale, locale, coltivato rispettando l’ambiente ed il più possibile cresciuto spontaneamente (dotato anche di più antiossidanti, dato che la pianta ha dovuto sviluppare spontaneamente la capacità di difendersi dalle avversità e dai patogeni).
Avete mai sentito parlare di “Parmena dorata”, “Rosa romana”, “Annurca” o“Renetta champagne”?
Sono varietà di mele antiche, selvatiche, che il mercato non propone.
Perché magari sono troppo piccole, oppure perché disomogenee tra loro e quindi imperfette per gli “standard” qualitativi del mercato.
Sono però un buon cibo per l’uomo, coltivato senza l’utilizzo di pesticidi. Sono fonte di ricchezza, in quanto patrimonio di biodiversità.
Un cibo che, prima ancora di avere un prezzo, ha un valore.
Tenete in mente una cosa: ogni euro speso a favore del produttore locale lo aiuta ad impegnarsi sempre di più a produrre nel totale rispetto dell’ambiente. Ogni euro consegnato invece ad una multinazionale alimenta l’economia “Malata”, che non ha cuore nessun altro interesse se non quello degli azionisti e di un anonimo comitato esecutivo.
Ma per rendervi conto fino in fondo della differenza tra due prodotti di questo tipo potete semplicemente provare a fare due composte, utilizzando da una parte le mele di varietà antiche e dall’altra mele commerciali.
La prima cosa della quale vi potreste immediatamente rendere conto, sarebbe che in quest’ultimo caso avreste acquistato tanta acqua!
Senza volerci poi addentrare sulle indubbie e differenti caratteristiche olfattive, gustative ed organolettiche, che sono però fondamentali dato che la cucina dovrebbe appagare tutti i sensi.
La mia scelta...
...di proporre una cucina essenzialmente vegetale, consapevole e sostenibile, è giustificata dal fatto che non vedo alcuna possibile alternativa. È necessario invertire il senso di marcia rispetto a questo assurdo e criminale sfruttamento del nostro pianeta che non mette al centro l’uomo, la sua salute ed il suo benessere, bensì il profitto delle grandi compagnie.
Penso anche che una società civile non dovrebbe accettare e legalizzare la “produzione di cibo” degli allevamenti intensivi, che comporta inauditi maltrattamenti ed un’atroce violenza verso milioni di animali ogni giorno, con oltretutto un altissimo tasso di inquinamento ambientale ed atmosferico.
Questo è un “cibo” frutto di sofferenza, ad altissimo costo per l’ecosistema e senza avere un reale valore.
È un cibo per il mercato, non per il benessere dell’uomo.
Per una volta fermiamoci a riflettere, perché la nostra salute non dovrebbe essere in vendita.
Giuliano Parmeggiani