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Ucraina, le massicce dosi di propaganda Nato ora non fanno più presa

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La Russia ha dimostrato di poter reggere economicamente e militarmente a una lunga guerra di logoramento più agevolmente di quaranta paesi occidentali


Ucraina, le massicce dosi di propaganda Nato ora non fanno più presa
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Solo fino a un mese fa si dava per certa una potente offensiva russa per spezzare il fronte ucraino e conseguire un’avanzata decisiva dopo mesi di guerra d’attrito e ridotti guadagni territoriali. La spallata preannunciata dagli esperti e temuta da Kiev fin qui non c’è stata e a questo punto si può affermare con certezza che non ci sarà. In una guerra in cui la strategia informativa gioca una parte fondamentale, probabilmente lo stato maggiore di Mosca non ha neppure mai seriamente pensato di abbandonare la sua strategia di lenta e metodica avanzata sul fronte del Donbass, che si concentra ora nella conquista delle due principali piazzeforti avversarie di Bakhmut (o Artemovsk) e Avdivka più a sud.

Da molti mesi questa guerra va assomigliando sempre più a quella statica di trincea della prima guerra mondiale in cui i contendenti si dissanguano per la conquista di qualche centinaio di metri al giorno.

Per muovere grandi unità corazzate e di fanteria nelle steppe ucraine prive di ripari naturali occorre godere di una schiacciante superiorità in mezzi e uomini e, soprattutto, mettere in conto una quantità enorme di perdite: la sofisticata tecnologia dei droni in combinazione con la potenza e la saturazione di fuoco dell’artiglieria costituisce un mix micidiale, in grado d’infliggere gravi danni a chi chiunque provi a manovrare allo scoperto.

In due mesi di scontri feroci la “fornace” di Bakhmut ha già inghiottito molte migliaia di soldati ucraini nel disperato tentativo di rallentare l’avanzata delle formazioni della PMC Wagner di Evgenij Prigozhin, che ormai occupano più del 70 per cento di quel che resta del centro urbano. Per limitare la carneficina quotidiana dei suoi uomini, il capo delle forze armate Valeriy Zaluzhny si è più volte chiaramente espresso per una ritirata su una nuova linea predisposta alcune decine di chilometri più a ovest.

Il presidente Zelensky è invece finora apparso irremovibile nella difesa ad oltranza della “Stalingrado del Donbass”, esattamente come aveva fatto in passato con Mariupol e poi con Severodonetsk e Soledar. Agli inizi di marzo ha ordinato perentoriamente all’esercito “di trovare le forze appropriate per aiutare la difesa di Bakhmut”, perché “nessuna parte dell’Ucraina può essere abbandonata”; ha fatto anche chiaramente capire a Zaluzhny che se non era pronto ad adeguarsi sarebbe stato “promosso” a ministro della difesa e sostituito con il comandante delle forze di terra Oleksandr Syrsky, molto più malleabile di lui.

Il generale Syrsky, non solo ha prontamente garantito la difesa della città fino all’ultimo soldato, ma è arrivato a proclamare platealmente la preparazione di una grande controffensiva per liberarla dall’assedio. C’è da dubitare che sarà proprio Bakhmut il bersaglio principale del prossimo attacco ucraino; questi proclami potrebbero essere solo una cortina fumogena per nascondere il vero obiettivo, forse la Crimea, ma si può essere a questo punto ragionevolmente sicuri che gli ucraini presto proveranno a muovere il fronte con una decisa manovra di sfondamento nella quale getteranno tutte le proprie riserve. A questo scopo, in tutta l’Ucraina è in corso una nuova ondata di mobilitazione forzata e dall’occidente stanno affluendo consistenti quantitativi di armi e mezzi.

Per l’esercito di Zelensky tentare un colpo risolutivo a questo punto della guerra non è tanto una scelta ma soprattutto una necessità esistenziale. Gli sponsor occidentali premono con sempre maggiore insistenza su Kiev perché dimostri risultati tangibili sul campo di battaglia, a compenso delle ingenti forniture di armi e i colossali investimenti economici che riceve da oltre un anno a questa parte.

Alla conclamata sicurezza di poter cacciare i russi da ogni chilometro quadrato del proprio territorio e allo sdegnoso rifiuto di qualsiasi trattativa di pace a questo punto devono seguire fatti concreti. I governi europei cominciano anche ad avvertire i crescenti segni di stanchezza dell’opinione pubblica per un conflitto che si doveva concludere in pochi mesi con la rotta dello zar Putin e si sta invece trascinando in una guerra di posizione, con il rischio che possa deflagrare da un momento all’altro in uno scontro generale sul suolo europeo.

Nonostante un’ossessiva campagna mediatica a sostegno della “resistenza” ucraina, l’invio di nuove armi e di ulteriori sostegni economici trova contraria ormai la metà dei cittadini europei, con punte del 63 per cento proprio in Italia. L’Ucraina si trova quindi costretta a dare fondo a tutte le proprie riserve contro i russi prima che in occidente il consenso popolare ormai intiepidito viri in freddezza e poi in aperta ostilità. Il presidente ceco Petr Pavel è stato molto esplicito a proposito dai risultati attesi della prossima offensiva, che se non dovesse essere decisiva potrebbe anche essere l’ultima: “Credo che l’Ucraina potrà fare un tentativo di una grande controffensiva quest’anno, ma se decidono di lanciarla e falliscono sarà estremamente difficile ottenere fondi per la prossima, perché molti paesi e molti politici si aspettano dei risultati”.

Sembrano aver perso di efficacia pure le massicce dosi di propaganda NATO a sostegno di Kiev somministrate in quantità industriali dai media e regolarmente smentite dai fatti. Riavvolgendo il nastro, tutti ricordano le profezie di qualche mese fa sul subitaneo crollo dell’economia russa travolta dalle sanzioni e dal tetto al prezzo di gas e petrolio, sulle rivolte popolari e degli oligarchi che avrebbero detronizzato un Putin ormai affetto da ogni malattia allo stadio terminale, sull’imminente svuotamento degli arsenali del Cremlino, sull’isolamento della Russia circondata dalla riprovazione di tutta la comunità internazionale.

Non solo la Russia ha finora subito, a causa delle sanzioni, danni economici inferiori a quelli dei paesi europei che le hanno imposte, ma ha dimostrato di poter reggere economicamente e militarmente a una lunga guerra di logoramento più agevolmente dei quaranta paesi occidentali che da oltre un anno stanno sostenendo con ogni mezzo lo sforzo bellico di Kiev. A giudicare dalla voragine del debito pubblico USA, amplificato dal pozzo senza fondo della guerra in Ucraina, dai sinistri scricchiolii del sistema bancario al di là e al di qua dell’Atlantico, dall’inflazione e dalla crisi energetica ben lungi dall’essere risolte, nell’occhio del ciclone sembra trovarsi oggi più quel “giardino” evocato dal capo della diplomazia europea Josep Borrell che i paesi della “giungla” che lo circondano.

Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha dovuto ammettere che il complesso militar-industriale occidentale non riesce neppure a fare fonte al consumo quotidiano di circa cinquemila proiettili di artiglieria dell’esercito ucraino. La produzione USA non supera i 15 mila colpi al mese, e salirà (forse) entro la fine del 2024 a 90 mila, quando gli arsenali russi, a detta del ministro della difesa Sergei Shoigu, ne sforneranno nel 2023 cinque milioni; e in un conflitto in cui il cannone, “il re del campo di battaglia”, esercita un primato indiscusso la carenza di proiettili è già un sinistro campanello d’allarme sull’esito finale della guerra.

Non sono solo i proiettili a difettare a Kiev ma anche l’aviazione, di cui è sostanzialmente priva e che gli occidentali dicono (per ora) di non voler fornire, e soprattutto i carri armati. Dopo un lungo e sfiancante dibattito i paesi NATO hanno stabilito di spedire a Kiev nel corso del 2023 alcune centinaia di carri armati, in gran parte Leopard, molti dei quali di prima generazione risalenti agli anni ’60-‘70, oltre a un contingente limitato di Abrams americani e Challenger inglesi. Per avere un termine di paragone, di recente il presidente Vladimir Putin ha ricordato che solo quest’anno dagli stabilimenti russi usciranno 1.600 nuovi mezzi corazzati. Basteranno dunque 200 Leopard e 20 Challenger per superare di slancio le linea di difesa russe disseminate lungo gli oltre 500 km che separano Zaporozhye da Sebastopoli?

Anche sul piano politico, il cordone sanitario internazionale che gli americani volevano stringere intorno all’”appestato” Putin sta dimostrando grandi crepe. Il recente incontro tra il presidente cinese Xi Jingpin e Putin a Mosca ha rappresentato in modo quasi teatrale la solidità dell’alleanza politica ed economica tra i due paesi e ha evidenziato come la prospettiva di un mondo multipolare non più dominato dall’”impero” americano stia prendendo lentamente ma sicuramente forma, con il consenso di altri grandi paesi che si pongono al di fuori dalla bolla autoreferenziale dell’occidente collettivo come India, Brasile e Argentina. Il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, mediato da Pechino, la progressiva normalizzazione dei rapporti tra la Siria filorussa con la Turchia e gli altri paesi arabi stanno delineando nuovi scenari geopolitici sul delicatissimo scacchiere mediorientale che la crisi ucraina non ha provocato ma sta soltanto accelerando.

Al di là dell’esito immediato delle preconizzate offensive, le scosse telluriche del conflitto russo-ucraino sono destinate a durare ancora a lungo soprattutto per i rischi, sempre immanenti, di un suo incontrollato allargamento ad altri paesi. Seymour Hersch, il giornalista americano ex premio Pulitzer, che ha ricostruito con dovizia di particolari il sabotaggio americano al gasdotto Nord Stream, ha detto che le probabilità che l’Ucraina vinca la guerra sono “di una su 38 milioni”, poiché “al momento Kiev non ha abbastanza armi e la corruzione, ai livelli più alti, è enorme”, anche se “in Occidente abbiamo difficoltà a parlare pure di questo”. Anche volendo aumentare e di molto il numero delle probabilità a favore di Kiev, le possibilità che possa prevalere sul campo di battaglia restano estremamente scarse; cionondimeno una netta sconfitta sul campo di battaglia, e neppure il lento dissanguamento in una guerra di attrito, costituirebbero di per se una spinta decisiva per intavolare trattative di pace. C’è da scommettere che, messi alle strette, Zelensky e la sua cerchia non lascerebbero nulla di intentato per creare un casus belli che spinga la NATO a entrare direttamente nel campo di battaglia, magari in combutta con qualche paese che odia la Russia solo poco meno di loro, la Polonia in primis.

L’ambasciatore polacco in Francia Jan Emeryk Rościszewski ha preannunciato una dichiarazione di guerra alla Russia, affermando senza mezzi termini che se l’Ucraina non vincerà, come polacchi “non avremo scelta” e “saremo costretti a unirci a questo conflitto, perché sono in gioco i nostri valori fondamentali”. Anche il provocatorio comunicato del ministro della difesa britannico che i carri Challenger in partenza per l’Ucraina saranno dotati di munizioni all’uranio impoverito rappresenta un altro sconsiderato passo verso l’escalation. E infatti Mosca ha prontamente risposto con l’annuncio del dispiegamento di armi nucleari tattiche in Bielorussia.

Dal caso del missile ucraino caduto in territorio polacco nel novembre 2022, fino all’abbattimento, il 16 marzo scorso, del loro drone Reaper Mq-9 da parte di due caccia russi SU-27, da parte loro gli USA hanno evitato finora di gettare nuova benzina sul fuoco. Nel prossimo futuro è prevedibile che situazioni potenzialmente esplosive come queste si ripetano per caso o per volontà, e non sarà per niente facile continuare a tenere il genio di una guerra mondiale prigioniero nella lampada.

Giovanni Fantozzi

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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