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Modena terra di mafia

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Da Badalamenti ad Aemilia: il filo rosso dei trasporti e i (presunti) ?anticorpiù


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Oggi il processo Aemilia e le voci dei pentiti della ‘Ndrangheta. Oggi il pentito Giuseppe  Giglio che racconta delle «estorsioni » e dei «recuperi» per conto di aziende locali (Bianchini in primis) e della «politica da oliare» per poter lavorare e dei rapporti tra imprenditori modenesi e il clan Grande Aracri. Oggi i legami tra le famiglie cutresi reggiane e la politica locale. Sì, oggi il processo Aemilia che dimostra la strettissima correlazione tra criminalità organizzata e aziende del territorio: in primis quelle dei trasporti col «business della ghiaia» raccontato dallo stesso Giglio al processo. Il cosiddetto «mistone» prelevato dalle cave emiliane, trasportato e venduto in nero: milioni di metri cubi venduti sotto il prezzo di mercato. Oggi tutto questo, ma si può fare un parallelo tra la situazione attuale e quella nota, stranota da decenni nella nostra provincia.

Una provincia inserita in una Regione che si conferma «terra di mafia».

Nella nostra provincia la storia del rapporto tra mafie ed affari parte da lontano. Già dall’inizio degli anni ’60 quando i primi boss mafiosi venivano confinati a Modena con soggiorno obbligato. Dal 1961 al ’95 sono stati oltre 3.500 gli appartenenti alle cosche del Sud trasferiti in Emilia, e una buona fetta di questi proprio nella nostra provincia. Alcuni di loro – terminato il ‘soggior no’ sono tornati ai loro paesi – altri hanno invece trasferito la famiglia al ‘n ord’. Come ricorda correttamente una inchiesta del 2012 del periodico «Pa ginauno», negli anni Ottanta, con l’ar - rivo del boss Giuseppe Caterino (quel Peppinotto che Iovine ha definito nel 2014, davanti a un giudice, ‘il vero sindaco di San Cipriano d’Aver sa ’), Modena diventò di fatto la ‘succursale’ della camorra di Casal di Principe.

Sempre Modena del resto fu teatro della famosa guerra tra clan con la sparatoria del ’91 di via Benedetto Marcello. Fatti che il processo Spartacus con le sedici condanne all’ergastolo (sentenze di carcere a vita anche per Francesco Schiavone, Michele Zagaria, Antonio Iovine, Giuseppe Caterino e Raffaele Diana) ha raccontato nei dettagli. Giusto ricordare peraltro come proprio Diana (Rafilotto), latitante fino al 2009 (quando venne arrestato in un bunker di cemento in un sottoscala a Casal di Principe), ha vissuto a lungo a Bastiglia con la moglie e quattro figli, creando dal piccolo Comune a nord della città una succursale del clan con estorsioni e gestione di locali. Diana, tra l’altro, è stato anche accusato di essere il mandante dell’a g guato a ll ’imprenditore edile Giuseppe Pagano g ambizzato nel 2007 in un cantiere di Riolo di Castelfranco dopo avere testimoniato contro ‘Rafilotto’ stesso (per l’agguato nel 2008 sono stati condannati 4 casalesi).

 Ma esemplare in questo contesto è la vicenda di Gaetano Badalamenti, il ‘don Ta n o ’ capo della cosca mafiosa di Cinisi di Palermo, condannato negli Stati Uniti a 45 anni di reclusione per un maxi traffico di droga (la famosa «Pizza connection») e all'ergastolo per aver ordinato l'omicidio di Giuseppe Impastato. Ecco Badalamenti – morto a 80 anni nel 2004 in carcere negli Usa, carcere dove avvenne il famoso interrogatorio (poi storpiato nel contesto dell’inchiesta trattativa Stato-Mafia) con il maresciallo Antonino Lombardo e l’ufficiale Mauro Obinu - visse per due anni (dal ’74 al ‘76) confinato a Sassuolo. Dalla capitale delle piastrelle, da uno dei centri nevralgici dell’economia modenese, il boss ha gestito rapporti, conosciuto imprenditori e fatto affari. Su Badalamenti così scriveva nel 1979 la Criminalpol: «Badalamenti è capo riconosciuto della cosca che negli Usa era collegata a Galante Crimine, recentemente ucciso, al quale fanno capo i fratelli Scaduto e i cognati di Tommaso, i Buttitta, rappresentati per gli Usa accreditati dallo stesso presso varie ditte di ceramiche di Sassuolo, Scandiano e comuni limitrofi. Il Badalamenti sarebbe quindi il ‘boss’ che manovra ogni illecita attività nella zona di Modena forse in posizione di concorrenza con Bagarella Leoluca e Riina Biagio di Salvatore che si sono inseriti nella cosca liggiana, e attraverso i Riina e i Liggio di Budrio e Medicina controllerebbe in questa regione anche l’attività dei fratelli Commendatore di Catania e parte del contrabbando sulla costa romagnola». Sono passati 40 anni da allora, ma molti in città ricordano ancora perfettamente ‘don Tano’ e del resto nel reggiano vivono e lavorano ancor oggi alcuni suoi parenti. Un’interessante inchiesta di qualche anno fa della rivista ‘Il Sassolino’ racconta dell’i nfluenza sul territorio che Badalamenti aveva avuto in quei due anni. Alloggiava nell’albergo più lussuoso di Sassuolo, l'ex Leon d'Oro nel centro città, davanti a piazza Martiri Partigiani. E – come racconta un sacerdote, ma a telecamere spente – nel ’76, negli ultimi mesi di soggiorno obbligato si trasferì in un appartamento trovatogli da un noto trasportatore locale che si rivolse alla parrocchia dicendo che se non avesse trovato l’al loggio «i suoi camion non sarebbero più partiti». Sempre minacce, sempre estorsioni e sempre lo stesso sfondo: quello delle imprese e in particolare il business dei trasporti e della logistica.

Nei due anni di confino Badalamenti firmava ogni mattina il foglio di controllo alla caserma dei carabinieri e si faceva recapitare ogni settimana il pesce fresco, meglio vivo, da Palermo. E il sindaco di allora, Alcide Vecchi, (40 anni fa come pochi anni fa alle telecamere del ‘Sassolino’) mostrava tutte le sue paure per quella presenza in una città in netta espansione economica e quindi fortemente a rischio. «A rimorchio di chi cerca lavoro – scriveva nel 74 Vecchi - arriva anche chi cerca di sfruttare lo spazio che una città delle dimensioni di Sassuolo offre per la delinquenza organizzata, spazio che nasce dalla relativa prosperità e dall’esistenza di un sottoproletariato determinato dall’eccesso di domanda rispetto all’offerta di lavoro. Non crediamo davvero opportuno inserire in questo nostro delicato tessuto sociale un individuo a contatto con le organizzazioni mafiose». «Qui arrivano aziende da tutto il mondo per le nostre piastrelle – aggiunse nel video pochi anni fa -. Questo non era confino, non vi era alcun isolamento». E se non vi era alcun isolamento significa che il boss mafioso intrecciò rapporti con aziende e con la politica. Rapporti che però non possiamo sapere. Perché il fascicolo riguardante il confino di Badalamenti dell’a rch iv io comunale di Sassuolo è riservato. Sarà consultabile solo nel 2054, a 50 anni dalla morte di ‘don Tano’. In quel rapporto potrebbe essere messo nero su bianco con quali imprese locali Badalamenti ebbe rapporti. E forse se ne potrebbe anche conoscere la natura. Questione tutt’altro che irrilevanti. Anche oggi. Ma, a quanto pare bisognerà aspettare altri 38 anni. E chissà se nel 2054 il processo Aemilia sarà concluso.


Redazione Pressa
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