Trentacinque anni fa l’Italia compiva un passo decisivo verso l’Europa senza frontiere. Era il 27 novembre 1990 quando, a Parigi, il nostro Paese firmava l’atto di adesione alla Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen, entrando ufficialmente nel progetto che avrebbe rivoluzionato il modo di viaggiare, commerciare e collaborare all’interno del continente.
La firma arrivava pochi mesi dopo il crollo del Muro di Berlino e nel pieno di una stagione in cui l’Europa stava ridisegnando se stessa. L’Accordo di Schengen, nato nel 1985 tra cinque paesi – Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi – aveva gettato le basi per l’abolizione dei controlli alle frontiere interne. Con la Convenzione del 1990, quegli impegni prendevano forma concreta attraverso regole comuni su visti, asilo, polizia e cooperazione giudiziaria.
L’adesione italiana non fu un semplice atto tecnico, ma una scelta politica che implicava un profondo riassetto normativo: controlli più coordinati alle frontiere esterne, banche dati condivise, procedure uniformi per l’ingresso dei cittadini extra-UE. Un lavoro che richiese anni: l’Italia entrò operativamente nell’area Schengen solo tra il 1997 e il 1998, quando furono aboliti i controlli alle frontiere con Francia, Austria e Grecia. Per i cittadini, fu l’inizio di una nuova normalità: viaggiare da Milano a Parigi senza dover esibire il passaporto, spostarsi per studio o lavoro senza barriere, beneficiare di una cooperazione che andava oltre la semplice mobilità.


