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Leader europei presi a calci dagli stivali Usa che hanno per anni baciato
La Pressa
Non ci sarà quindi da stupirsi se nel bing bang che seguirà alla fine del conflitto ucraino, subito dopo Kiev la vittima sarà Bruxelles e tutta l’impalcatura Ue

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“Ci sono decenni in cui non accade nulla e ci sono settimane in cui accadono decenni”: questa frase attribuita a Lenin pare sintetizzare il rivolgimento epocale che ha preso avvio con le folgoranti dichiarazioni del presidente americano Trump e dei suoi più stretti collaboratori sul conflitto in Ucraina e sul cambiamento di rotta nei rapporti degli Usa con la Russia e con l’Europa. Assistiamo alla messa in moto di un processo dagli esiti imprevedibili probabilmente destinato a ridisegnare gli equilibri geopolitici del mondo.
In pochi giorni, con ripetute e durissime esternazioni, il presidente americano ha letteralmente capovolto la narrazione occidentale sulla guerra che va avanti da tre anni: le vere causa del conflitto non vanno cercate nella volontà di potenza imperiale della Russia ma in primo luogo nell’insensata politica di espansione a est della NATO; nella sua risoluzione presentata giorni fa al Consiglio di sicurezza dell’ONU la delegazione americana si è persino rifiutata di definire l’intervento russo come “invasione”; e quasi per incanto il “despota” Putin, da incarnazione del “male assoluto” dell’era Biden, si è trasformato in un leader serio e affidabile con il quale interloquire e negoziare a tutto campo. Al tempo stesso, gettando nella più nera disperazione le nutrite schiere del circo politico-mediatico occidentale che per tre anni hanno idolatrato Zelensky dipingendolo come un eroico baluardo della libertà, Trump non ha esitato a indossare i panni del più “perfido dei putiniani”, sparando a palle incatenate contro il presidente ucraino, bollato come un “comico fallito”, che ha voluto la guerra e che ora ostacola la pace, un dittatore che ha lasciato prosperare la corruzione nel paese e che ora evita le elezioni perché non ha più consenso nel paese.
Ben pochi però potevano immaginare che queste parole fossero solo l’antipasto al brutale trattamento che l’altro giorno Trump ha riservato a Zelensky alla Casa Bianca. Anziché fiutare l’aria e capire che era meglio stare alla larga, il presidente ucraino ha voluto a tutti i costi avventurarsi a Washington prendendo a pretesto la firma dell’accordo sulla concessione dei diritti di sfruttamento delle risorse minerarie dell’Ucraina voluta da Trump per ripagare gli USA dei “500 miliardi di dollari” spesi fin qui a sostegno dello sforzo bellico di Kiev. Quella bozza di accordo contiene clausole capestro per l’Ucraina, che se fossero davvero applicate la ridurrebbero allo status di colonia americana per molte generazioni a venire, ma trovandosi in un vicolo cieco e avendo disperato bisogno dell’aiuto americano Zelensky si era rassegnato a sottoscriverlo. In un colloquio a quattr’occhi alla Casa Bianca, senz’altro contava di ammorbidire l’intransigenza americana; e invece ha infilato la testa nella tagliola che gli avevano accuratamente preparato, sorbendosi per un’ora in mondovisione la spietata reprimenda dal capo, che lo apertamente accusato di sabotare gli sforzi americani per la pace, di giocare con la terza guerra mondiale e, soprattutto, di non essere abbastanza grato e rispettoso per quanto gli USA hanno fatto per sostenere l’Ucraina. Alla fine di una bastonatura verbale che ha pochi precedenti nella storia diplomatica, è stato letteralmente messo alla porta: “torna quando sarai pronto per la pace”.
Anche se l’abituale postura da sceriffo che entra nel saloon con la colt spianata e che non si preoccupa per nulla di contraddirsi (“l’ho detto davvero io?” risponde serafico a chi glielo fa notare) suggerisce sempre prudenza nel valutare le sue future mosse, alle parole Trump sta facendo seguire i fatti. I recenti incontri di Riyad e di Istanbul tra le delegazioni russa e americana, con l’Ucraina e l’Europa tenute platealmente fuori dalla porta alla stregua di servi inutili, indicano chiaramente la determinazione degli USA a trovare rapidamente un accordo con Mosca, fondato esclusivamente sui rispettivi interessi geopolitici, a spese di tutti gli altri.
Secondo quanto finora trapela dal piano di pace americano, pare assodato che Kiev dovrà rassegnarsi a cedere il 20 per cento del suo territorio alla Russia e trasformarsi in un paese neutrale, abbandonando definitivamente ogni velleità di entrare a far parte della NATO. In grande difficoltà sul campo di battaglia e sempre più a corto di uomini, il destino dell’Ucraina era segnato ben prima dell’elezione di Trump, ma dopo l’irrimediabile rottura andata platealmente in scena alla Casa Bianca, Kiev, privata del sostegno militare ed economico americano, non avrà altra scelta che capitolare. Le uniche incognite a questo punto riguardano i tempi e se lo stato ucraino riuscirà a sopravvivere al trauma di una guerra rovinosamente persa.
Nel frenetico impegno a tirarsi fuori il prima possibile dal pantano ucraino, Trump mette a frutto il vantaggio di essere stato sempre personalmente contrario alla guerra; ma se questo può forse essere utile a salvargli la faccia, lo scarico di ogni responsabilità sul suo predecessore Joe Biden (“il peggiore presidente della storia americana”) non sarà sufficiente ad arginare la grave perdita di credibilità dell’impero americano. A prescindere dai contenuti del futuro appeasement con la Russia, la precipitosa fuga dal “caos” ucraino che ha creato, rappresenta per gli USA non solo una grave sconfitta geopolitica ma anche una spia rivelatrice della sua declinante influenza in un mondo sempre più multipolare.
Se nel suo tentativo di salvare il salvabile e di limitare i danni, il neo presidente americano manifesta almeno una buona dose di sano realismo dopo gli anni di ordinaria follia che hanno trascinato l’occidente sulla soglia della guerra nucleare con la Russia, l’Europa continua invece ad avvitarsi in una crisi politico-economica ed esistenziale, che non sembra avere fine. Nello show quotidiano di attacchi verbali della Casa Bianca i dirigenti politici europei sono diventati uno dei bersagli fissi non meno di Zelensky. Alla Conferenza per la sicurezza di Monaco il vicepresidente Vance è arrivato persino a denunciare la repressione della liberà di parola in Europa perché ai suoi leader “non piace l’idea che qualcuno con un punto di vista alternativo possa esprimere un’opinione diversa o, Dio non voglia, votare in modo diverso o, peggio ancora, vincere un’elezione”. Parole dure come pietre, ma che paiono trovare puntuale conferma in Romania, dove il candidato nazionalista alla presidenza della repubblica Călin Georgescu non solo si è visto annullare le elezioni che aveva vinto, ma è finito pure agli arresti perché sospetto del terribile reato di “putinismo”.
A queste dichiarazioni si è aggiunto l’annuncio di Trump che sulle importazioni europee da aprile graveranno dazi del 25 per cento, con la giustificazione che “l’UE è stata creata per fregarci”. Una misura che suona coma una campana a morto per le imprese esportatrici europee, a partire da quelle italiane e tedesche. In aggiunta ai dazi, Washington ha bellamente scaricato sull’Europa l’intero fardello economico e militare della disfatta ucraina. Dell’unità occidentale restano ormai solo i cocci.
Presi ripetutamente a calci in faccia da quegli stessi stivali a stelle e strisce che per anni hanno untuosamente baciato, i politici europei reagiscono al voltafaccia del padre-padrone con un misto di isteria e di servilismo.
Le inconsolabili prefiche del pensiero liberal e globalista avvertono che il nuovo corso di Trump rappresenta una mortale minaccia all’universo del pensiero unico politicamente corretto in cui sono immersi e reagiscono gonfiando il petto e chiamando alla guerra. Strepitano a più non posso su un’imminente, quanto inesistente invasione russa (per Macron la Russia addirittura “rappresenta una minaccia esistenziale per l’Europa”), ripropongono senza curarsi del ridicolo paragoni tra Putin e Hitler, e a parole rinnovano il mantra di un impegno senza limiti nella guerra sacrificale all’ultimo sangue dell’ultimo ucraino.
Continuano anche a promettere l’aumento delle spese militari a livelli incompatibili con il mantenimento dello stato sociale. Anziché preoccuparsi di rimediare alla gravissima crisi economica del continente in buona misura riflesso delle “sanzioni” che loro stessi hanno applicato alla Russia, i warmongers europei, equamente divisi tra “destra” e “sinistra”, predicano che carri armati e cannoni sono più importanti di sanità, scuola e pensioni. Il guaio è che più strepitano e più mettono in piazza quanto siano impotenti e divisi. Inoltre, serpeggia in molti di loro il riflesso atavico del servo buono e fedele che non si rassegna a perdere i favori del padrone, e cerca di riconquistarli scodinzolandogli intorno. Le improvvise visite a Washington di Macron e di Starmer, non sono servite a ottenere l’approvazione di Trump alla loro boutade sull’invio un contingente di soldati in Ucraina, ma solo a confermare plasticamente l’irrilevanza che ha assunto il continente per la politica americana.
Non ci sarà quindi da stupirsi se nel big bang che seguirà alla fine del conflitto ucraino, subito dopo Kiev la vittima sarà Bruxelles e tutta l’impalcatura dell’UE, con la NATO che la seguirà dappresso.
In questo desolante quadro continentale, la Meloni è l’esponente di primo piano della politica europea che pare muoversi con maggiore prudenza, con il passo felpato della vecchia volpe che non vuole finire prematuramente in pellicceria, come già è successo a tutti i leader continentali in questi ultimi anni, da Johnson, a Duda, Rutte, Scholz, fino a Macron che in Francia ha ora un gradimento pari a zero. La premier cerca di destreggiarsi giocando di sponda tra le ripetute professioni di fede euroatlantica e filoucraina (“Kiev lotta contro una brutale aggressione”) e Trump dal quale, unica tra i politici UE, ha ottenuto ripetute attestazioni di stima (“Meloni è una grande leader. L’Italia è un alleato importante”). La Meloni ricambia definendo Trump un leader “forte ed efficace” che “non si allontanerà dall’Europa”, e ripropone vertici tra Usa, UE e alleati occidentali allo scopo di ritrovare l’unità perduta. Questi esercizi di equilibrismo sono sempre più precari, anche perché la crepa tra USA e UE è ormai diventata una voragine e gli spazi di mediazione sono ridotti al lumicino. E’ dunque prevedibile che tra non molto sarà costretta a scegliere da che parte stare, con buona pace dell’unità europea.
Giovanni Fantozzi
Foto Dire
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
Vittime..
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