Quando il faro illumina uno scorcio di paesaggio è gradevole osservare le parti rimaste in penombra. Ne
L’elogio della Tracotanza dell’amico Giuseppe Leonelli vale la pena soffermarsi sull’idea complementare di ‘limite’ e le sue declinazioni lungo tutto il libro. La Hybris, la tracotanza appunto - che Leonelli riassume come “la protervia di chi tenta di volare oltre il confine del suo personale recinto” - non viene punita in nome di un moralismo convenzionale, estraneo ai Greci. Ma perché viola l’imperscrutabile Necessità che preordina i mortali: se oltrepasso il confine, in sostanza, non è che sarò schienato perché sono stato cattivo, ma perché ho peccato di presunzione, arroganza, smodata ambizione, turbando il naturale e arcano equilibrio dell’esistenza. Dal sottosuolo il ghigno di Leonelli affida dunque alle pagine del suo pamphlet memorie e riflessioni che affiorano nel mondo di sopra e nelle quali si intravede la fatica progressiva di comprendere a che altezza fissare l’asticella che separa la nobile sfida agli dei dalla giungla, dal mero delirio di Raskolnikov, che ritiene come tutto sommato uccidere la vecchia usuraia sia giusto nella logica di un’eccezionalità concessa ad alcuni superuomini secondo la quale Napoleone e Giulio Cesare meritano di finire nella parte giusta della Storia e non confinati tra i criminali di guerra.
In fondo la Tracotanza è sempre stata in ogni capitolo della Storia e in ogni angolo di mondo piuttosto mainstream, ha sempre goduto di buona fama. Oggi ha addirittura stabilmente conquistato l’egemonia culturale nell’era della dismisura e dei bonus ultramiliardari al manager, nel denaro come unico generatore di valore, nell’esplicito disprezzo verso i poveri, nelle fortune familiari ereditate spacciate per meriti personali. Nulla di nuovo sotto lo smog: già gli Ateniesi sbeffeggiavano i Meli ridendosene del diritto e della giustizia: conta solo la forza. In un abile rovesciamento di prospettiva dunque Leonelli, a parere di chi scrive, celebrando la Tracotanza intraprende un viaggio per scoprirne i limiti. Quali quindi? Il primo semaforo è il bersaglio: la Tracotanza ha senso, è sempre giusta, se si scaglia contro il Potere umano che ha “in sé un germe negativo” nel momento in cui, scrive l’autore citando Fabrizio De Andrè, “non esistono poteri buoni”. Sostiene Leonelli: “E’ giusto andare contro i sistemi di potere, in qualunque forma essi si manifestino, anche col rischio di esagerare, perché è sempre minore questo rischio rispetto a quello di farsi inglobare nel grigio e placido conformismo”.
Il secondo limite è il successo che “calpesta ogni cosa, prima di tutti se stessi”. Leonelli esorta a rifuggire il desiderio di vittoria, perché in realtà “non esiste alcuna pentola d’oro”. Scorrono le immagini di Roberto Baggio dopo il rigore sbagliato “per un tanto così” e che gli apre tuttavia una nuova dimensione esistenziale, di Narciso che finisce consumato dall’immagine di se stesso, di Roberto Vecchioni che alla sua Milano propone di barattare quel po’ di soldi e quel po’ di celebrità con la sua vecchia 600 e la ragazza che tu sai. “Celebrità, fama e applausi alimentano una narrazione che appare solida, ma in realtà è fragile e transitoria” e ci lascia il retrogusto amaro da “vincenti disperati”. Ma il limite supremo che ho letto nel libro di Leonelli, quello che mi ha fatto sobbalzare sulla sedia, è stata una coincidenza: la citazione contenuta a pagina 107, nel capitolo sulla ‘Disobbedienza’. Un passaggio di Italo Calvino che quando ho letto il Barone Rampante è stato quello che ho sottolineato con maggiore vigore: “La disobbedienza acquista un senso solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella”. Caspita, forse è questa la misura giusta dell’asticella.
La trasgressione non è tale se ci rende la vita più comoda, se ci procura un vantaggio. La tracotanza della trasgressione, scrive Leonelli, “è sicuramente istinto, genio, rabbia, amore e forza vitale, ma sia anche fatica, costanza, sacrificio, rinuncia e rigore morale”. L’autore scrive delle pagine meravigliose sul suo papà generoso oltre ogni ragionevole misura, “macchine e soldi regalati ad altri, denari prestati a fondo perduto, pomeriggi interi dedicati agli altri”. Come il pescatore di De Andrè che versa il vino e spezza il pane “per chi diceva ho sete, ho fame”. E forse nel dimenticare l’utile la chiave della vita? Nel rinnegare se stessi e prendere la propria croce? Nell’abbandonare, scrive, “il folle bisogno di razionalizzare ogni cosa”? Forse si è “più vicini a sfiorare il Senso quando si smette di cercarlo”? Chissà. Ma intanto, caro Beppe, accendi il tuo maggiolone e parti – magari rispettando i limiti di velocità, non essere tracotante come al solito anche rispetto al codice della strada – anche se non hai una meta definitiva in testa. Attraversa pure le tue amate tappe dei desideri: il piccolo appartamento a Roma in pieno centro “per sentire al mattino le voci della città”, il rifugio sul Monte Vioz dei tuoi 18 anni, il trabucco in riva al mare dove ti attende la poltrona di vimini. E a chi ti chiederà perché intraprendi un viaggio senza sapere dove andare, rispondi come Cristoforo Colombo a Pietro Gutierrez nelle Operette morali di Giacomo Leopardi: “Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella ci tiene liberi dalla noia”. Comunque andare, ché forse l’azione, un obiettivo da centrare, è l’unico modo per allontanare l’angoscia dell’insensatezza.
Gianpaolo Annese