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L'11 maggio 1946, in una Italia piegata dalla guerra e dalla violenza politica che fino a pochi mesi prima aveva provocato tanti lutti, un anelito di speranza si innalzava al cielo, era quello di una Italia ancora consapevole di essere lo scrigno depositario della bellezza del mondo e della cultura secolare che produsse nei secoli. Arturo Toscanini tenne un concerto importantissimo a La Scala per la sua avvenuta ricostruzione, ma è evidente che da un punto di vista simbolico il messaggio andava ben oltre.
C'era tanta miseria, sicuramente la cultura era, sul piano economico, l'ultima cosa a cui pensare, invece la politica di allora pensò di fare il contrario, pensò di marchiare a fuoco la ripresa con un gesto culturale di grande importanza. La classe governante di allora, in una condizione di miseria generale, capì che dare all'Italia nascente una forte connotazione identitaria era fondamentale.
La domanda delle cento pistole, come avrebbe detto il compianto Sandro Paternostro, è: la penseranno così anche i decelebrati (salvo rare, rarissime eccezioni) di oggi? Non è dato a sapersi, ma ciò che come modenesi abbiamo l'obbligo di auspicare è che il nostro cuore culturale, il Teatro Pavarotti, sia tutelato e messo nelle condizioni di fare un grande evento a crisi finita, che sia salvaguardata la tradizione che identifica Modena nel mondo, quella musicale, questo è e dovrebbe essere un preciso dovere di tutti i cittadini e di tutta la politica.
Questa mia riflessione vuole essere un invito, un appello, alla comunità civile e politica modenese e al sindaco Muzzarelli, a non dimenticare non solo Modena, ma anche la Modenesità.
Bruno Rinaldi
Redazione Pressa
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