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Ruggero Leoncavallo e il delitto di Montalto Uffugo

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Un cast stellare e Arturo Toscanini a dirigere l'orchestra battezzarono un'opera destinata a diventare immortale


Ruggero Leoncavallo e il delitto di Montalto Uffugo
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Il 9 agosto del 1919 moriva a Montecatini Terme Ruggero Leoncavallo, compositore tra i più importanti di quel movimento artistico che prese il nome di “verismo”. La sua opera più rappresentativa è senz’altro “I pagliacci” che, appunto, appartiene al Verismo italiano, quello di Giovanni Verga. Per sommi capi, il Verismo si diffuse durante il periodo della Seconda Guerra d’indipendenza e si affermerà anche nei primi anni del ‘900. L’11 luglio 1859 Vittorio Emanuele II firmò con Napoleone III e Francesco Giuseppe I d’Austria, l’Armistizio di Villafranca, ratificato successivamente con la Pace di Zurigo nel novembre 1859. Nonostante l’ingente spargimento di sangue e i molteplici atti d’eroismo dei soldati e dei volontari, il sogno di un’Italia unità non era stato raggiunto e da questa delusione nacque quella sorta di pessimismo che permeò le opere veriste.

La popolazione, ma anche la nobiltà e la ricca borghesia, non avevano più fiducia che l’Italia riuscisse a unificarsi e un certo “campanilismo” iniziava ad affacciarsi, nel caso che, invece, il re piemontese fosse riuscito nel proprio intento. Ricordate la frase di Don Fabrizio ne “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa? “Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene.”

 

Ma da dove deriva questo termine “Verismo”? Semplicemente dalla parola “vero”. Secondo gli scrittori veristi, l’autore ha il diritto di riprodurre la realtà cosi com’è, senza giudizi o commenti di natura personale. Altre caratteristiche sono il “Regionalismo”: gli scrittori amano per lo più trattare argomenti della propria regione, della società nella quale vivono, parlando molto spesso del lato più negativo; il già citato “Pessimismo”: nelle opere veriste, traspare spessissimo uno sconforto, si pensa e si crede che l’unita nazionale tanto agognata, non sarà raggiunta e, nel caso, non cambierà le sorti delle classi sociali più deboli.

Abbiamo poi la ”Impersonalità”: gli scrittori non vogliono assolutamente inserire nelle loro opere commenti personali e, infine, il “Linguaggio”: gli autori adottano la lingua nazionale per quanto riguarda la forma, in alcuni termini, però imitano il linguaggio della gente più comune. Ma veniamo ai Pagliacci.

 

La fonte ispiratrice de “I Pagliacci” ci porta al Sud, e precisamente in Calabria. Sì, perchè l’opera nasce da un fatto di cronaca avvenuto a Montalto Uffugo, una cittadina in provincia di Cosenza. La vicenda s’intreccia con un segmento della stessa biografia dell’Autore, allora bambino, e fu di tale impatto da stimolare, diversi anni dopo, il suo immaginario d’artista.

 

Nativo di Napoli, Leoncavallo si era trasferito con la famiglia a Montalto Uffugo, dove suo padre fu chiamato a ricoprire l’ufficio di Pretore. Le fonti riportano che, a quel tempo e nel borgo calabrese, ci fu un fatto di sangue di matrice passionale. La vicenda avvenne il 5 marzo 1865, come risulta dalle carte giudiziarie che parlano di “atti a carico del detenuto Luigi D’Alessandro fu Domenico di anni 25 (…) e del detenuto Giovanni D’Alessandro fu Domenico di anni 31”, entrambi “calzolai in Montalto. Imputati di assassinio premeditato con agguato, commesso con armi insidiose la sera del 5 marzo 1865 in Montalto, in persona di Gaetano Scavello.”

 

Nell’opera troviamo un omicidio, quello compiuto dall’attore girovago Canio ai danni della moglie Nedda e del suo amante Silvio, un contadino del luogo, che interverrà cercando di difendere la donna. L’omicidio avviene sulla scena di uno spettacolo che il caso volle tratti proprio di una vicenda di tradimento. Finzione e realtà si confondono in modo drammatico: gli altri attori della compagnia, attoniti per l’orrore, non intervengono a fermare la furia omicida di Canio e anche il pubblico comprende troppo tardi che ciò che sta vedendo non è più finzione e cerca invano di fermare Canio.

 

La versione reale della vicenda, diversa nei fatti eppur analoga nel far perno intorno al sentimento di una incontrollabile gelosia, riguardò abbastanza da vicino la famiglia Leoncavallo: la vittima, Gaetano Scavello, era stato infatti assunto da Vincenzo Leoncavallo (padre del musicista) come domestico, affinché badasse a Ruggero, che all’epoca aveva appena otto anni. Scavello si era innamorato di una ragazza del paese, di cui era a sua volta innamorato anche il calzolaio Luigi D’Alessandro. Un giorno di marzo, il domestico di casa Leoncavallo, passeggiando per un sentiero della campagna di Montalto vicino alla fontana detta “del somaro”, incontrò la ragazza insieme al garzone della famiglia D’Alessandro, Pasquale Esposito, e tentò di portarla via con lui; la ragazza rifiutò di seguirlo e proseguì col garzone, finché Gaetano non li vide entrare in un casolare. Scavello si nascose e attese che uscissero. Fermò Esposito, chiedendogli spiegazioni, ma il suo rifiuto di parlare fece infuriare il ragazzo al punto da spingerlo a frustare l’altro alle gambe con un ramo di gelso. Il fatto fu riferito allo stesso Luigi D’Alessandro e a suo fratello Giovanni e i due, la sera successiva, minacciarono più volte Scavello, prima di accoltellarlo a morte in un violento scontro all’uscita da uno spettacolo teatrale. Come riferì al giudice un testimone, tale Pasquale Lucchetta che usciva dalla scala interna del teatro con una lanterna in mano, la scena raccapricciante gli si impose alla vista: Luigi D’Alessandro che scagliava un colpo di coltello inglese da calzolaio alla gola di Gaetano Scavello, mentre il fratello Giovanni lo colpiva all’addome. L’istruttoria fu avviata proprio da Vincenzo Leoncavallo, ma il resto del processo fu seguito dall’avvocato Francesco Marigliano, terminando con la condanna a venti anni di reclusione per Luigi D’Alessandro e ai lavori forzati a vita per suo fratello Giovanni.

 

L’origine dell’opera “I Pagliacci” è testimoniata in una autobiografia di Leoncavallo rimasta incompleta e affidata ad un dattiloscritto oggi conservato nel Fondo Leoncavallo della Biblioteca Cantonale di Locarno, in Svizzera. Un passaggio cruciale è quello in cui si legge “Ripensai alla tragedia che aveva solcato di sangue i ricordi della mia infanzia lontana e al povero servitore [Gaetano Scavello – NdR] assassinato sotto i miei occhi e in nemmeno venti giorni di lavoro febbrile avevo buttato giù il libretto dei ‘Pagliacci’ “. La pubblicazione dell’opera non fu affatto facile: una volta ultimato il libretto, il compositore si recò dall’editore Ricordi, ma quest’ultimo rimase sconcertato in particolare dal prologo, oggi considerato un manifesto dell’opera verista. Ricordi obiettò che si creava troppa confusione tra comicità e tragicità, privando – a suo dire – il lavoro di ogni effetto. Leoncavallo però non si perse d’animo e si rivolse all’editore Sonzogno, che lungimirante accettò il lavoro. Fu un successo strepitoso che insidiò, quanto ad incassi, i successi di Giuseppe Verdi e di Giacomo Puccini.

 

Un cast stellare e Arturo Toscanini a dirigere l’orchestra “battezzarono” un’opera destinata a diventare immortale. Celebre è stata la registrazione discografica con Enrico Caruso in veste da protagonista: il disco è infatti ricordato come una pietra miliare dell’allora nascente industria discografica, essendo stato il primo ad aver superato il milione di copie vendute.

Massimo Carpegna


Massimo Carpegna
Massimo Carpegna

Visiting Professor London Performing Academy of Music di Londra. Docente di Formazione Corale e del master in Musica e Cinema presso Istituto Superiore di Studi Musicali Vecchi Tonelli..   Continua >>


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